Mozambico: una Chiesa temprata dalle difficoltà

Padre Renato con alcuni bambini e ragazzi, nell’agosto 2007.

– da “La Libertà” n. 38 del 3 novembre 2012 –

Africa Sud-orientale: padre Renato Comastri, missionario dehoniano in Mozambico, traccia un bilancio. In 20 anni, vicino ad ogni missione, sono nate centinaia di comunità. Dagli anni Settanta a oggi, difficoltà e risorse in ascolto dello Spirito

 

Presentiamo qui la testimonianza di padre Renato Comastri, già Amministratore apostolico della diocesi del Gurué in Mozambico (si trova ora a Milevane); il servizio fa parte dalla rassegna di esperienze di missionari reggiani impegnati in missioni non diocesane pubblicate dal settimanale diocesano “La Libertà” nel corso dell’Ottobre Missionario 2012.

Padre Renato, originario di Monchio delle Olle (Canossa), è sacerdote del Sacro Cuore di Gesù (Dehoniani) dal 1970 e ha svolto la gran parte del suo ministero nella Provincia del Mozambico.

 Dalle scuole, le prime comunità cristiane

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]I[/dropcap] primi missionari dei Sacerdoti del Sacro Cuore (Dehoniani) sono arrivati in Mozambico nel1947. Aloro è stata affidata, dall’allora Vescovo di Beira Dom Sebastiao de Resende, la zona Nord della Provincia della Zambezia, al centro del Mozambico, con una estensione di circa 42mila kmq. A partire da due missioni antiche, una fondata da sacerdoti diocesani portoghesi e una dai Cappuccini, hanno iniziato la loro missione evangelizzatrice a partire dalle scuole elementari, fondate da loro stessi. Potremmo dire che i primi cristiani, anche se non esclusivamente, sono stati alcuni degli alunni delle scuole elementari. Col passare degli anni si sono formate le loro famiglie e, con loro, sono sorte le prime comunità cristiane.

In pochi anni, per poter essere presenti e attivi in tutto il territorio, sono state aperte una decina di missioni. Non potendo fare il lavoro da soli e per poter essere più efficaci, si è pensato, fin dai primi anni, alla fondazione di una scuola di formazione per catechisti, della durata di due anni. Da questi centri è nata la figura del catechista tradizionale, con una preparazione sufficiente in campo biblico, catechetico e pastorale per condurre le comunità cristiane, evidentemente in collaborazione stretta con il sacerdote missionario. Il catechista era l’unico responsabile della comunità e l’unico intermediario tra la sua comunità e la missione.


Lo Spirito soffia dopo l’indipendenza

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]N[/dropcap]egli anni immediatamente prima dell’indipendenza (avvenuta il 25 giugno 1975) si sentiva la necessità di cercare un altro modello di Chiesa, più partecipativa. La novità portata dal Concilio Vaticano II, l’esempio delle comunità di base dell’America Latina, la conoscenza di alcune esperienze di altre Chiese africane, la ricerca stessa all’interno della nostra Chiesa promossa dalle Settimane Missionarie annuali, i corsi di inculturazione per i nuovi missionari e di aggiornamento per tutti, hanno creato una sensibilità comune e la decisione di tentare assieme qualche cosa di nuovo.

La spinta decisiva che ci ha obbligati a muoverci con urgenza in quella direzione è stato l’avvenimento dell’indipendenza nazionale del Paese dal potere coloniale del Portogallo, il 25 giugno 1975. Quel giorno è stato una festa per tutti, celebrata nella pace e nella fratellanza. Un’esperienza da non dimenticare. Con l’indipendenza il Mozambico è diventato una Repubblica Popolare Socialista a modello russo.

A distanza di poco più di un mese sono state nazionalizzate tutte le missioni: case, scuole, chiese, dispensari sanitari, macchine… Nel processo di nazionalizzazione delle scuole, una delle clausole era la proibizione ai maestri di frequentare la Chiesa e specialmente di avere responsabilità dirette. Dato che i maestri erano, quasi nella totalità, anche catechisti, a loro si imponeva una scelta di campo: quasi tutti hanno lasciato il proprio incarico pastorale per garantirsi un piccolo salario come maestri. Di conseguenza, le comunità cristiane da un giorno all’altro sono rimaste senza il loro responsabile. Quindi: come fare? Era urgente trovare una soluzione.

“La Chiesa è nostra”

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]S[/dropcap]enza dubbio lo Spirito ci ha guidato per mano. In breve tempo, dopo alcuni incontri, si è presa di comune accordo la decisione che ogni comunità cristiana doveva trovare al proprio interno le persone che fossero in grado di prendersi carico delle varie mansioni. E così è stato. In quel momento l’impegno maggiore dei missionari ha cominciato ad essere la formazione di tutte queste persone, che erano state scelte per le varie mansioni.

Il primo ministero istituito è stato quello di un animatore della liturgia della Parola per la domenica. Col passar del tempo si è visto che una persona da sola non poteva risolvere tutto e quindi si sono scelti altri responsabili: quello dell’unità della comunità, i catechisti per i vari gruppi di bambini, giovani e adulti, il ministro straordinario dell’Eucaristia, della famiglia, della carità, dei lavori della cappella e tanti altri, conformi alle necessità di ogni comunità.

La frase che in quegli anni si ripeteva spesso era: “La Chiesa è nostra”. Tutti erano responsabili di tutto, anche se poi le mansioni affidate a ognuno erano differenti e complementari. Lo stesso missionario non era più colui che decideva tutto da solo, ma era chiamato a dare, oltre all’Eucarestia e al perdono, unità e sicurezza, nel rispetto del cammino di ogni gruppo.

Si sono vissuti anni belli e con entusiasmo, nonostante si fosse in mezzo a tante difficoltà, dovute alla “rivoluzione socialista”, promossa dal governo, e alla successiva guerra civile, durata 16 anni. Possiamo dire che si sono vissuti valori di comunione, corresponsabilità, condivisione, capacità di sacrificio…

Non è stata una scelta fatta a tavolino, meno ancora un orientamento venuto da fuori, ma una grazia dello Spirito, che contiene in sé qualche cosa di originale e di unico, che non dovremmo perdere con il passare degli anni. Le assemblee diocesane di pastorale e le assemblee nazionali (1977, 1991 e 2005) hanno accolto e confermato la scelta e il cammino fatto.

Altro punto di forza che ha reso possibile alle comunità di camminare senza la presenza continua del missionario,  sono stati i libri che gli stessi missionari avevano preparato negli anni precedenti in lingua locale: i catechismi per i vari gruppi, il lezionario domenicale, alcuni libretti semplici e pratici, che servivano di aiuto e orientamento per chi era stato scelto per un ministero specifico.

Col passare degli anni, specialmente durante la lunga guerra civile, si sono potuti constatare frutti positivi: l’unità interna delle comunità; la fedeltà all’incontro domenicale e alla catechesi; una grande generosità, che in certi casi è giunta fino all’eroismo; la visione di fede e di speranza nel sopportare povertà, violenze e sofferenze di ogni genere; capacità di perdono e di assenza di vendette, quando finalmente è tornata la pace; incidenza nel campo sociale, con la promozione attiva per un cammino di riconciliazione, di ricostruzione nazionale e di democrazia.

Possiamo dire che l’indipendenza nazionale, la rivoluzione socialista e la guerra civile hanno contribuito a modellare dall’esterno la nostra Chiesa. Lo Spirito ci ha fatto passare per sentieri non facili, ma ora ne godiamo i frutti.

La pace fa rifiorire le comunità cristiane

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]I[/dropcap]l 4 ottobre 1992, festa di S. Francesco di Assisi, è stato firmato a Roma l’accordo di pace tra i due contendenti:  il Frelimo (Fronte di Liberazione del Mozambico), partito al Governo, e la Renamo (Resistenza Nazionale Mozambicana), che conduceva la guerriglia. Con questo accordo di pace non sono state risolte tutte le difficoltà. Ma da quel giorno le armi hanno taciuto e, caso più unico che raro, la pace, a distanza di venti anni, regna ancora in Mozambico.

La Conferenza Episcopale Mozambicana e la Comunità di Sant’Egidio hanno contribuito in modo determinante perché i due contendenti si sedessero attorno a un tavolo e portassero a termine un dialogo tutt’altro che facile.

Negli anni seguenti all’accordo di pace si è verificato un rapido aumento del numero dei cristiani e delle comunità, sono stati ordinati in tutte le diocesi sacerdoti locali, sia diocesani che religiosi, così pure è cresciuto considerevolmente il numero delle suore mozambicane.

Quelle che all’inizio erano chiamate Piccole Comunità Ministeriali ora hanno un numero considerevole di fedeli. Ogni missione ha attorno a sé, in un raggio di oltre cento km, da cento a trecento comunità cristiane e i preti che le assistono sono due o tre in ogni zona. Si impone perciò il cambiamento della pastorale: da una pastorale catecumenale all’accompagnamento dei cristiani e dei loro figli, senza, evidentemente, dimenticarsi del primo annuncio.

Si impone pure una riflessione per non perdere le caratteristiche essenziali della nostra Chiesa e, allo stesso tempo, non essere chiusi e inerti alle sfide che il mondo di oggi ci presenta.

I nodi della Chiesa in Mozambico

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]T[/dropcap]utte le cose, quando iniziano, sono carismatiche, ma, con il passar del tempo, le regole prendono il sopravvento e soffocano lo Spirito, indebolendo anche tutto quello che lo Spirito aveva fatto sorgere. Questo si verifica anche tra di noi. Concretamente: manca una formazione sufficiente da parte di tutti coloro che sono chiamati a svolgere un ministero nella loro comunità. Gradualmente, anche se i responsabili sono laici, si ritorna alla concezione gerarchica. Il desiderio di “potere” crea contrasti e mina la vitalità interna. I ministeri, invece di appartenere a tutta la comunità, finiscono per essere proprietà di qualcuno. Si sta indebolendo  l’unità e la corresponsabilità nelle comunità cristiane e la presenza profetica dei cristiani nella Chiesa e nella società. Manca una spiritualità forte e il senso di appartenenza. Anche qui la famiglia comincia a mostrare punti di debolezza e i giovani abbandonano le comunità cristiane nelle quali sono cresciuti.

C’è poi un problema che riguarda i libri preparati negli anni Settanta per la formazione dei laici: non rispondono più alle esigenze del mondo attuale e hanno bisogno di essere rifatti o, almeno, rivisti.

Un’attenzione ancora maggiore deve essere data alla vita sacerdotale e alla vita consacrata. Le vocazioni non sono molte, ma il numero lascia ben sperare per il futuro. Ma questo non basta. Il modello europeo, copiato tale e quale, non fa per il nostro caso. In questo momento la nostra Chiesa deve cercare la strada giusta per la formazione di un clero e della vita consacrata acculturata in questo popolo, ma anche rispondente alle esigenze e alla fisionomia della Chiesa stessa.

Confidiamo che lo Spirito Santo, che ha accompagnato la nascita e la crescita di questa Chiesa, continui a orientarla attraverso la Parola, ad alimentarla con l’Eucaristia e a unirci nella carità per essere testimoni credibili nella società mozambicana.

padre Renato Comastri

 

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