#cianfrusaglie

Venerdì tardo pomeriggio: preparando la cena intercetto un frammento di dialogo tra i miei figli. Agostino: “Ma perché ‘hashtagandrà tutto bene’? Scusa, come fanno a saperlo?” (il riferimento è ovviamente al motto ripetuto da meme e condivisioni, appelli, notiziari, “pubblicità progresso”). La risposta di Riccardo è tranchant come sempre: “Infatti non lo sanno, non hanno la sfera di cristallo. Lo dicono per avere meno paura, o per sentirsi tutti parte di un gruppo, che ne so. O magari per passare il tempo”. Agostino perplesso: “Eh va beh, ma allora…”. La nuova questione è interrotta dall’improvvisa irruzione di Teresa.

Questo scambio tra bambini cela“la” domanda. Su cosa possiamo contare nei momenti difficili, chi ci darà una certezza vera – quella che rende buona la vita, e piena di speranza? Una domanda che la loro semplice presenza porge continuamente anche a me, ora più che mai: tu dove guardi, in cosa speri, per cosa vivi, per cosa puoi sacrificarti, per cosa puoi morire?

La mattina successiva, sabato, dalla “Vladimiro Spallanzani” (la scuola di Riki e Ago) arriva un videomessaggio del dirigente Giuliano. Armato di fisarmonica, canta per i bambini la canzone che stava accompagnando la preghiera nei giorni precedenti l’improvvisa interruzione delle attività: I cieli, di Claudio Chieffo. Il testo è semplice e bello: “Non so proprio come far/ per ringraziare il mio Signor./ Mi ha dato i cieli da guardar/ e tanta gioia dentro al cuor./ Lui m’ha dato i cieli da guardar/ Lui m’ha dato la bocca per cantar/ Lui mi ha dato il mondo per amar/ E tanta gioia dentro al cuor./ Si è curvato su di me/ ed è disceso giù dal ciel/ per abitare in mezzo a noi/ e per salvare tutti noi…”. Vedo i miei figli sedersi per terra (con sorella al seguito, ormai la canzone la conosce anche lei), appoggiare lo smartphone sul pavimento, aprire il filmato e – senza che nessuno l’abbia suggerito, senza essersi accordati, senza alcun segnale – iniziare a cantare con Giuliano. Con tanto di saluto finale in risposta al suo. Rialzandosi per tornare alle attività di poco prima li sento commentare: “Che bello che c’è Giuliano” (Agostino). “Sì, e che bello che c’è Dio” (Riki).

Sommati insieme, il venerdì sera e il sabato mattina dei miei figli fanno il Salmo 8, proposto quella stessa mattina dalle Lodi (e che ha accompagnato tante attività a scuola). “O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli…”.

Così mi torna in mente uno dei più celebri Pensieri di Pascal(il n. 264 nell’edizione Chevalier): “L’uomo non è che una canna, la più fragile della natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua, bastano per ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché egli sa di morire, e sa il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero”. Davvero l’essere più minuscolo ha il potere di annientare noi e ogni nostro programma, come ci mostra drammaticamente il tempo che stiamo vivendo. Non è in nostro potere calcolare, conservare la vita: non alle nostre condizioni. Non è questa la nostra grandezza. Il pensiero cui Pascal allude e che ci fa grandi è quello che, proprio mentre ci permette di domandare il senso del vivere e delle cose, ci fa scoprire che siamo precari, fragili, irrimediabilmente impastati di nulla.

Possiamo esser tentati di lasciare l’ultima parola al limite che preme sulla nostra vita. Così il “lampo di illuminazione” di Antoine Roquentin, descritto da Sartre ne La Nausea (1938): “la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità”. Quando Antoine contempla il reale nella sua contingenza,vede solo assenza di significato. Superflue le cose, inutili: come inutile, in fondo, è il vivere. Esistere è venire al mondo per un caso beffardo e insensato, e infine perire allo stesso modo: “E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare, […]: ecco la Nausea”.

Dalla contingenza si può anche provare a fuggire. Lo annota Pascal: l’attività più presente nelle umane vicende è il divertissement. Non “divertimento”, ma distrazione, dispersione. Un riversarci pressante in attività e progetti (anche buoni, anche giusti)che ci diano consistenza, che ci dicano il nostro valore. Identificati con quello che facciamo, con le gratificazioni che ne riceviamo, col riconoscimento che ne otteniamo; tutti affidati alle nostre soluzioni, alla nostra piccola misura – quasi a rimuoverelo strappo del limite. Basta poco a spazzare via tutto, come – di nuovo – ci mostra l’epoca che stiamo attraversando.

C’è un’altra strada?

Ragionando sul Robinson Crusoedi Defoe, in Ortodossia (1908) Chesterton osserva che “Crusoe è un uomo sopra un piccolo scoglio con poca roba strappata al mare: la parte più bella del libro è la lista degli oggetti salvati dal naufragio. […] Ogni utensile da cucina diviene ideale perché Crusoe avrebbe potuto lasciarlo cadere nel mare. È un buon esercizio nelle ore vuote o cattive del giorno stare a guardare qualche cosa, il secchio del carbone o la cassetta dei libri, e pensare quanta sarebbe stata la felicità d’averlo salvato e portato fuori del vascello sommerso sull’isolotto solitario. Ma un migliore esercizio ancora è quello di rammentare come tutte le cose sono sfuggite per un capello alla perdizione: tutto è stato salvato da un naufragio. Ogni uomo ha avuto una orribile avventura: è sfuggito alla sorte di essere un parto misterioso e prematuro come quegli infanti che non vedono la luce. Sentivo parlare, quand’ero ragazzo, di uomini di genio rientrati o mancati; sentivo spesso ripetere che più d’uno era un grande «Avrebbe-potuto-essere». Per me, un fatto più solido e sensazionale è che il primo che passa è un grande «Avrebbe-potuto-non-essere»”.

Siamo le cianfrusaglie di Crusoe: quelle carte marittime, quelle ceste di stoviglie, quei cannocchiali, quei vestiti sottratti alle onde. Il vero nome della nostra precarietà è dipendenza. Dipendiamo da un Altro, siamo fatti da un Altro, voluti da un Altro, salvati da un Altro: che si serve di ogni circostanza per penetrare la nostra sordità, per balenare attraverso le nostre palpebre cucite.Che con amore già ci ha raccoltifuori dal nulla, e ci porta tra le mani.

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