Nei reparti Covid come Chiesa

Diciotto assistenti spirituali operativi o in formazione

Ricorda la Chiesa “ospedale da campo” di Papa Francesco, oltre che l’icona evangelica del Buon Samaritano, la scelta della nostra Diocesi di entrare attraverso propri sacerdoti nei reparti Covid per portare il conforto dei sacramenti e una parola di speranza. Il servizio di un primo gruppo di volontari è già iniziato: sei presbiteri si rendono presenti negli ospedali di Reggio Emilia, Guastalla e Scandiano 6 giorni su 7, con turni dalle 13 alle 20, nella più rigorosa osservanza dei controlli a cui essi per primi si sottopongono e nel rispetto della libertà di coscienza dei cittadini. Un segno di consolazione divenuto concreto grazie a una convenzione firmata dal direttore generale dell’Ausl-IRCCS di Reggio Emilia Cristina Marchesi e dal vescovo Massimo Camisasca. “È stata ed è per me una priorità in questo tempo di Coronavirus, sia durante la prima che la seconda ondata della pandemia, assicurare la presenza di sacerdoti all’interno degli ospedali”, afferma monsignor Camisasca. “Garantire la vicinanza di un prete a chi è gravemente malato o sta morendo – aggiunge – è la più alta forma di carità che la Chiesa possa esprimere. Accompagnare chi muore all’ultimo passo è il dono più importante che possiamo fare ai nostri fratelli. Non c’è infatti solitudine più grande di quella della morte. La presenza del sacerdote alimenta la speranza che l’incontro con Dio sia un incontro vitale, rappresenti l’inizio di una nuova vita”.
Approfondiamo la notizia, diffusa il 10 dicembre dall’Ufficio Stampa della Diocesi e subito ripresa da testate giornalistiche anche nazionali, intervistando il Vicario generale monsignor Alberto Nicelli.

Don Alberto, perché la Diocesi ha compiuto questa scelta ‘in uscita’?
Uno dei drammi vissuti dalle famiglie nella prima come nella seconda fase dell’emergenza sanitaria è consistito nel distacco dai familiari e dagli affetti, in particolare per le persone più anziane. Offrire un supporto psicologico e spirituale può costituire un sollievo in primo luogo per i malati; la presenza dei sacerdoti dà poi sostegno alla loro comunicazione, attraverso telefoni e tablet, con i familiari lontani; rappresenta altresì un aiuto al personale medico-sanitario, specialmente quello impegnato nelle terapie intensive, affaticato e spesso provato in prima persona dal virus. Per tutte queste ragioni la Diocesi ha chiesto all’Ausl che alcuni preti possano svolgere gratuitamente il servizio loro proprio nei reparti Covid.

Quando si è iniziato a pensare a questa operazione?
L’idea iniziale è maturata dall’esperienza di don Alberto Debbi, il nostro medico pneumologo che ha lavorato a tempo pieno all’ospedale di Sassuolo durante la prima ondata pandemica ed è tuttora collaboratore a chiamata, grazie anche alla testimonianza che egli stesso ha portato, di cui La Libertà ha trattato in più occasioni, sul grande bisogno delle persone di essere raggiunte e ascoltate in questo tempo ancora difficile. Insieme a Lucia Ianett, direttore del Servizio diocesano per la Pastorale della Salute, abbiamo cominciato a immaginare di estendere la proposta di servizio a tutti i sacerdoti, quando era da poco partita la seconda ondata del virus. Il vescovo Massimo ci ha appoggiato immediatamente. Un’altra Diocesi vicina, quella di Mantova, aveva già avviato un itinerario simile.

Dopodiché?
È iniziata l’interlocuzione con l’Ausl-IRCCS: fin dal mio primo scambio telefonico con il direttore sanitario Giorgio Mazzi è stato evidente l’interesse per questa forma di collaborazione.

Qualcuno chiede: non bastano già i cappellani ospedalieri?
L’attività dei cappellani ospedalieri, che sempre vanno ringraziati, continua anche in epoca Covid nei diversi reparti dei nosocomi. La fase straordinaria che viviamo, con l’attivazione di reparti dedicati solamente alla cura del Coronavirus, unita alla considerazione del fatto che spesso l’età anagrafica di questi cappellani rappresenta un fattore di rischio da non sottovalutare, ha consigliato di fare appello a sacerdoti mediamente più giovani.

Quindi come avete proceduto?
Al dialogo con i vertici dell’Ausl-IRCCS sono così seguite, da parte della nostra Chiesa diocesana, le richieste di disponibilità ai sacerdoti, individuando come potenzialmente idonei quelli di età inferiore ai 60 anni. Questi preti svolgono il loro ministero in reparto nel rispetto della volontà e della libertà di coscienza dei cittadini, in piena autonomia operativa.

Com’è andato il sondaggio?
Sono diciotto i presbiteri che hanno risposto all’appello e accettato di intraprendere un cammino di formazione online, che sta già interessando in questi giorni un secondo gruppo di presbiteri, pronti a prendere servizio nel periodo dal 1° al 24 gennaio 2021. Insieme ai preti disponibili, agli incontri preparatori partecipano sia funzionari dell’Azienda sanitaria, che ne curano l’addestramento, sia membri di un’équipe diocesana.

Qual è lo scopo di questo affiancamento diocesano?
Soprattutto offrire un percorso di sostegno e auto-aiuto, con il coinvolgimento anche di Annamaria Marzi, responsabile della Casa Madonna dell’Uliveto di Montericco, per rispondere alle domande più ricorrenti sul ministero che deve necessariamente adattarsi, sulla difficoltà di stare per ore in reparti blindati, su una sofferenza tante volte muta che si tocca con mano. Ma anche il nostro Servizio pastorale-giuridico ha dato il suo contributo alla stesura del testo della convenzione con l’Ausl-IRCCS.

Come valuta la risposta del presbiterio diocesano?
I nostri sacerdoti hanno dimostrato una spiccata sensibilità. Anche perché oltre a coloro che hanno accettato di andare ‘in prima linea’, alcuni altri – di età più avanzata, e mi ci metto anche io, che ho già superato i 60 anni – si sono offerti per sostituire nelle attività in parrocchia i confratelli impegnati nei turni ospedalieri. Tra i volontari ci sono parroci e vicari parrocchiali, fratelli della Carità, membri della Comunità Sacerdotale Familiaris Consortio e missionari della Fraternità San Carlo. E fra i primi che hanno voluto mettersi a servizio c’è un confratello che mesi fa è stato ricoverato per Covid e se l’è vista brutta…

Perché non vengono pubblicati i nomi degli assistenti spirituali “Covid”?
Per mantenere la discrezione che riguarda la loro persona e i pazienti che essi incontrano, mettendosi essi stessi in contatto con i familiari degli ammalati nel caso ce ne sia bisogno. E anche per evitare protagonismi personali: questa è un’esperienza di Chiesa.

Coloro che volessero mettersi in contatto con questi cappellani a chi possono rivolgersi per segnalare richieste di sacramenti o di visite o semplicemente per raccomandare i loro cari ricoverati?
Possono rivolgersi all’Ufficio diocesano di Pastorale della Salute (Lucia Ianett, telefono 334.1810338) o alla mia segreteria (Teresa Manelli, telefono 0522.1757932).

L’iter per arrivare alla firma della convenzione è stato lungo?
Nient’affatto. Siamo tutti rimasti favorevolmente colpiti dall’accoglienza convinta del progetto da parte dell’Ausl-IRCCS di Reggio Emilia: abbiamo condiviso la consapevolezza che l’assistenza spirituale possa rappresentare in tantissimi casi un ‘quid’ che si aggiunge alle competenze scientifiche e all’azione terapeutica.

La convenzione porta la scadenza del 30 giugno 2021…
…e noi condividiamo con l’Ausl-IRCCS la speranza che possa essere archiviata anzitempo per il cessare della pandemia. Ma per ora, purtroppo, c’è ancora bisogno di un surplus di impegno. E presto speriamo di attivare un protocollo simile anche per l’ospedale di Sassuolo.

Da La Liberta del 16 dicembre 2020

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