AD10S

Addio, letteralmente a Dio. Così mi piace pensare di Diego Armando Maradona e del suo ritorno là, nell’Olimpo delle leggende, assiso tra santi e dei della pedata e non solo.

Per me Diego Maradona è sempre stato l’antagonista principale del mio Milan, quello dei tre olandesi. L’unico capace di poter fermare la grande armata di Arrigo Sacchi e ai miei occhi di bambino il nemico numero uno. Solo crescendo e col tempo ho imparato ad apprezzarne le gesta e le pennellate che solo el diez ha saputo regalare alla platea del mondo intero. Perché tutti sanno chi è Maradona.

Diego è stato come un compagno di viaggio. Anche dopo il suo ritiro periodicamente sbucava fuori facendo parlare di sé. Con lui se ne va un pezzo della mia vita, quello delle Notti Magiche degli anni ’90, quando il calcio era giocare dal mattino alla sera tirando pallonate contro i garage con mia mamma che dal balcone mi chiamava per la cena. Anni in cui  il calcio italiano era il migliore in assoluto e indossare la maglia numero 10 era scomodo e ingombrante: quel numero significava estro, fantasia, talento allo stato puro.

E io bambino prima e adolescente poi ho sempre temuto e agognato quel numero sulle spalle. Da piccolo volevo il 7, quello di Donadoni, che come Diego aveva i riccioli. Poi crescendo il 6 del mio papà, fino ad arrivare ad avere sempre il 4 (o il 14 quando ero in panca) perché io giocavo davanti alla difesa e di sicuro non potevo permettermi di indossare la maglia che solo i più Grandi potevano portare. Indossare la 10 era un onore ma anche un onere riservato solo al più bravo.

Diego Armando Maradona sapeva portare questo fardello con semplicità e naturalezza grazie al suo grande talento. Ma, non solo quel numero rifulgeva sulla maglia azzurra del Napoli o su quella dell’albiceleste,  lui ce lo aveva tatuato sul cuore e sulla pelle. Del 10 sapeva caricarsi le responsabilità non solo in campo ma anche fuori con le sue tante battaglie politico-ideologiche per il sud del mondo a contestare questo o quel potente della Terra.

Anche per questo Maradona è divenuto un eroe popolare, amato e idolatrato dalla gente non solo per il suo sinistro divino, ma per la voglia di riscatto che ha acceso nel popolo più povero che nel calcio riconosceva l’unico strumento per “combattere” contro i più ricchi.

Un amore sfrenato quello per il loro condottiero, al punto da far diventare leggendario il suo gol di mano contro l’Inghilterra in un mix tra calcio e politica vendicando l’aggressione inglese alle isole Malvinas. La mano de Dios, consegnata alla storia in quel 1986 e “legittimata” dal secondo gol, eletto come la segnatura più bella della storia dei Mondiali, è stata la rivincita del popolo argentino contro l’imperialismo inglese.

E come dimenticare il Maradona napoletano, le sue dichiarazioni contro l’opulente nord Italia reo di dimenticare il sud del nostro paese? A volte ripenso a quanto mi sarebbe piaciuto vivere la sensazione di uno stadio che vibrava, nel senso letterale del termine, cantando la canzone di amore più bella che solo Napoli, città passionale per antonomasia, poteva dedicare a un calciatore.

Il 3 luglio 1990 ero in cortile col mio migliore amico e tutti quelli del nostro condominio incollati alla tv per la semifinale Italia-Argentina giocata allo stadio San Paolo. Di quella partita si è detto tanto, al punto che si è arrivati a dire che i tifosi napoletani tifassero per lui e contro l’Italia. Perché quella era la sua gente e lui il loro dio. Quanto ho odiato Maradona quel giorno. La gioia di un mondiale casalingo naufragata in quei maledetti calci di rigore. E lui il principale colpevole.

E se il Maradona calciatore è stato amato e osannato in ogni angolo del pianeta, il Maradona uomo è stato spesso dimenticato e abbandonato. Ma non dal suo popolo che gli ha sempre perdonato le sue tante sbandate tra alcol e droga. È così che nascono i miti: infallibili ma al tempo stesso così umani, con tutte le contraddizioni degli uomini comuni e per questo ancora più amati. Lui ce l’ha fatta a coronare il suo sogno di bambino: vincere un Mondiale ed essere il più forte di tutti.

Solo una volta mi sono permesso di giocare con la 10: al torneo del liceo, col mio caro amico Federico che mi fa: “Non sei mica Maradona” dopo aver tentato una giocata improbabile.

Già, perché essere un Maradona significa essere l’eccellenza in qualsiasi campo della nostra vita.

E magari anche lassù, dove si sa sempre tutto, qualcuno si sta chiedendo se Maradona è megl’ ‘e Pelè.

Per commentare la rubrica scrivi a matteo.daolio@laliberta.info

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *