La misura della felicità

“Comunque mamma chi non crede in Dio non capisce proprio niente. Secondo loro chi l’ha fatta ‘sta roba qua, eh?!?”: questo l’ingresso a gamba tesa di Agostino nelle mie Lodi in una calda mattina agostana, di fronte al mare del Salento. Ad onor del vero il suo patrono non la pensava in modo del tutto dissimile, anche se bisogna riconoscere che la metteva giù molto meglio: “Interroga la bellezza della terra, del mare, dell’aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo e l’ordine delle stelle; interroga il sole che col suo splendore illumina il giorno e la luna che con la sua luce attenua l’oscurità della notte che al giorno tiene dietro; interroga gli animali che si muovono nell’acqua, che popolano la terra o svolazzano nel cielo […]. [Queste creature] ti risponderanno: Guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora, queste creature, così belle ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è bello in modo immutabile?” (Agostino, Discorso 241, 2).

“Beh, più che altro non sanno chi ringraziare”, è la chiosa di Riccardo all’intervento del fratello – così inconfondibilmente “sua”, benché in quel momento un po’ stridente con il mitragliamento di acqua ai danni di Teresa e del papà.

Il siparietto vacanziero mi torna in mente spesso anche a distanza di tempo, in questo primo scampolo di autunno. Ci ripenso nel riaccendersi della routine, nella frenesia mattutina tornata in grande stile dopo i mesi di stop; e nel traffico davanti al cancello della scuola, divenuto ora un confine invalicabile per noi genitori, tra figli scaraventati fuori dall’auto più o meno ferma, mascherine alla rovescia, lanci dal finestrino di ukulele o cartelline di tecnica al distratto di turno. Ci penso ancora quando mi metto di fronte a questo periodo, alle limitazioni più o meno comprensibili che esso porta con sé, alle lamentele, alle insofferenze, alle incertezze, alle preoccupazioni.

È ancora Riccardo dall’alto dei suoi undici anni a farmi capire il cuore della faccenda, mentre scende di corsa dalla macchina.

“Ciao mamma, buona giornata… sono contento”.

“Contento di cosa?”.

“Di questo!”.  E gli ridono gli occhi sopra la mascherina mentre, già avviandosi, con un movimento del braccio indica tutto (le auto imbottigliate, le frecce colorate dei percorsi obbligati, l’ingresso della scuola pronto ad accoglierlo).

La sera prima sacramentava per il carico di studio, e dodici ore dopo se ne esce così. Si potrebbe liquidare il tutto con una parola magica, preadolescenza. In realtà c’è molto di più.

Nel 1908 Chesterton annotava in Ortodossia che “la misura della felicità è la riconoscenza”. Che è semplicemente un altro modo per dire quel richiamo così semplice e insieme grandioso a “ritornare come i bambini” (cfr. Mt 18, 3).

Guardando ai miei figli lo capisco. Nonostante i capricci, le baruffe e le discussioni, un bambino intuisce in modo terribilmente vivido e concreto che tutto ciò che serve alla sua vita gli è dato. Senza bisogno di teorizzarlo, sa di essere dipendente in tutto quel che riguarda più da vicino la sua stessa esistenza: e questo non gli crea problema. In lui l’impatto con la bellezza in ogni sua forma (il mare scintillante, la gioia di una vacanza in famiglia, ma anche il ritorno di una quotidianità rimasta sospesa per mesi, le banali dinamiche di classe, la passione per la conoscenza frammista alla fatica del lavoro) fa tutt’uno con la semplice intuizione di un dono.

Questa scoperta dischiude per noi il versante luminoso che ogni cosa porta in sé. Ogni istante, ogni stupido, banale pezzo di realtà, è creato e ci è dato. La silenziosa e discreta bellezza delle cose e delle circostanze è tutta racchiusa nella loro Origine, che infinitamente le precede e le supera, e che pure vuole che esse siano.

Lo ha compreso in modo abissale Dante quando ha potuto posare il proprio sguardo nel mistero insondabile di Dio e “ficcar lo viso per la luce etterna”: accorgendosi con stupore che “Nel suo profondo vidi che s’interna,/ legato con amore in un volume,/ciò che per l’universo si squaderna” (Paradiso XXXIII, 83; 85-87). Nel seno della Gloria eterna, al cuore della Bellezza più radiosa riposa una bene-volenza per ogni ente, un legame universale di amore che tiene insieme la realtà e si squaderna in molteplici forme: un bene-dire, una Bontà zampillante che dà esistenza a ogni cosa. Tutto è dono, tutto è grazia: noi stessi, i nostri cari, i nostri amici e nemici, le circostanze della nostra vita.

È davvero la riconoscenza la misura della nostra felicità, ne è la condizione: questa “vampa di sorpresa per la nostra stessa esistenza”, questa “sommessa alba di meraviglia” (è ancora Chesterton nella sua Autobiografia, 1936) che la vita spesso ci porta a dimenticare.

Servono occhi di bambino e cuore di poeta per riconoscere l’Amore senza fine che ci dona l’essere istante dopo istante, per distinguerne i tratti: dove si manifestano imperiosi, come nel fulgore sfacciato di un paesaggio marino, e là dove più si celano, come nella fragile trama di un giorno qualunque.

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