Finché non avremo un volto

Forse solo oggi comprendo la verità delle Ceneri, che la Chiesa ci pone sul capo con materna dolcezza all’inizio di ogni Quaresima, e che – sospesi i riti, sospese le celebrazioni – gli eventi presenti ci gettano addosso con malagrazia. Il tempo che attraversiamo ci pone crudamente davanti all’amarezza della nostra caducità: e il pensiero va a chi è malato, a chi muore solo, in isolamento, senza i propri cari accanto, senza esequie. Circostanze che davvero hanno il potere di insinuare il sospetto (sei solo polvere, sei solo cenere, è questo il tuo destino: aggrappati alla vita e a ciò che essa ti offre finché puoi, finché ti è concesso).

Sull’onda di queste riflessionimi ricapita tra le maniA viso scoperto(Till we have faces, che – come annota E. Rialti – sarebbe più corretto tradurre Finché non avremo un volto), rilettura del mito di Amore e Psiche firmata da Clive Staples Lewis.

L’intera vicenda è narrata dalla principessa Orual, la protagonista.In un mondo intriso di crudeltà insensata e stolida (a partire da quella del re, suo padre),l’unica consolazione per lei è l’affetto della sorella minore Psiche, bella e pura come una Dea: Orual le vuole bene come a una figlia.Quando una terribile epidemia colpisce il regno, il sacerdote del tempiocomunica che per fermarla il Dio della Montagna reclama Psiche in sacrificio.La fanciulla saràincatenata alle pendici del monte, dove il Dio la sposerà per poi divorarla.

Il rito sacrificale si compie;Orual, affranta, cade a lungo malata.Una volta ristabilitasi si affretta versola valle sacra, per recuperare almeno i resti di Psiche. La trova però viva,vestita di stracci eppure ancor più splendente di gioia e bellezza: è infatti sposa di un Dio meraviglioso, che ogni notte la raggiunge nella sua reggia, anche se lei non ne ha mai scorto il viso. Quando Orual, sempre più sgomenta, chiede di poter vedere almeno il palazzo, Psiche sgrana gli occhi: “Ma questo, questo! I cancelli, le mura splendenti…[…] E allora sentilo, sentilo se non lo puoi vedere. Toccalo, prendilo a pugni, battici contro la testa”. Orualnonpuò vedereil palazzo, né le magnifiche vesti che Psiche sostiene di avere indosso:se ne va senza riuscire a smuovere la sorella, che ormai reputapazza. Tuttavia, recatasi di nuovo sul posto nottetempo,ha una fugace visione: “[un palazzo] solido e immobile, con le sue cerchia di mura, i suoi pilastri, archi e architravi, esteso per acri e acri, di una bellezza labirintica. Come aveva detto Psiche, non assomigliava a nessuna casa che io avessi mai visto nel nostro paese e nella nostra epoca”. Orual si rifiuta di credere aciò che ha visto. Inizia così la sua lotta contro il Dio che le ha rubato l’affetto di Psiche: contro tutti gli Dei, che si prendono gioco dei mortali consumandone le vite.

Dopo una serie di drammatici eventi scatenati dalle sue scelte, Orual,ormai vecchia,si trova ricongiunta alla sorella. Di nuovo sulla Montagna del Dio, nel magnifico palazzoche ora anch’ella può vedere.

E a quel punto tutto accade: All’improvviso, da una strana espressione sul viso di Psiche […], o da un glorioso e terribile intensificarsi del blu sopra di noi, o da un respiro profondo come un sospiro emesso tutto intorno a noi da labbra invisibili, o da un profondo, dubbioso tremito e presagio dentro il mio cuore, seppi che tutto ciò non era stato nient’altro che un preparativo. […] Le voci parlarono di nuovo […]. «Egli viene», dicevano. […]L’aria intorno a noi diventava di momento in momento più luminosa, come se qualcosa avesse sprigionato un incendio. […] Mi stavo disfacendo. Non ero nessuno. Ma dire questo è ancora troppo poco; piuttosto Psiche stessa non era più, in un certo senso, nessuno. La amai come un tempo non avrei creduto possibile poterla amare. […] Eppure non era lei, non ora, ciò che contava. O se contava (come dubitarne: lei contava gloriosamente), era per amore di un altro. La terra, le stelle e il sole, tutto ciò che è stato o sarà, esistevano per amore di lui. Ed egli stava venendo. La creatura più terribile, la cosa più bella, l’unico terrore e l’unica bellezza che ci sia, stava venendo. Le colonne sul lato più lontano della vasca già brillavano per il suo avvicinarsi”.

Per tutta la vita Orual ha diffidato degli Dei, accusandoli di sottrarre agli uomini quel poco di bellezza che punteggia la loro esistenza mortale. Giunta al termine del suo lungo peregrinare scopre che davvero il Dio voleva tutto: voleva lei. E nel momento in cui si arrende e si lascia “disfare”, nel momento in cui rinuncia ad essere padrona unica e assoluta del proprio destino, scopre che ogni cosa le viene restituita (Psiche, il mondo intero, se stessa come è davvero, come è sempre stata: il suo viso ora non più ripugnante e inespressivo, ma radioso oltre ogni immaginazione).

Benché apparentemente distante da noi, questa vicenda ci rappresenta tutti. Nostro è il bisogno di“essere”, di aver consistenza, di amare ed essere amati; la speranza che su di noi si posi uno sguardo amico, una parola buona -è un bene che tu ci sia,ha senso il tuo vivere, lottare, faticare.Nostra l’amarezza dell’impatto (sempre crudele, sempre dolorosamente ingiusto) col limite che ci assedia; il timore di perdere quanto abbiamo di buono e caro, di perderci per sempre–e la tribolazione pungente di questo tempo di epidemia si rivela solo una tra le tante sfumature della nostra finitezza.

Qui si consuma la vertigine della nostra libertà.

Arriva per ciascuno, infatti, il momento della visione. Un segno fugace (ognuno sa quale sia per sé) che lascia intravedere, anche per un solo attimo, quel Mistero di bellezza e luce che sostiene la vita, il mondo, le cose. Rispondere a quel segno, anche solo confusamente, è trovarsi in rapporto con una Presenza indomabile, meravigliosa e terribile,che non si lascia ridurre alle nostre categorie, non ci permette di dettare condizioni. Che ci bracca da dentro ogni istante perché ci risolviamo a guardarla in volto.

È forte la tentazione di aggrapparci a quello che abbiamo, che siamo, che sappiamo; cercare di tener stretto qualcosa, conservare qualcosa per noi.

Ma come sarebbe riuscire a  consegnarci? Consegnare la nostra vita: e riconoscere il gioire e l’amare, il soffrire, persino il morire come via del nostro sì a Uno che cerca, insegue, chiama anche attraverso gli eventi più impensabili.

Ogni circostanza, quella che solo Lui sa (anche quella che ai nostri occhi sembra così lontana, dimenticata, disperante, monotona) è il luogo in cui possiamo chiedere che si faccia vedere, che accada, che si riveli a noi – e che, così facendo, ci riveli a noi stessi.

Cambia tutto, poter vivere così le nostre giornate (e, assieme ad esse, questo tempo amaro): di ciascun attimo scoprire che lì, proprio in quel momento, proprio adesso“Egli stava venendo”, Egli viene, Egli è qui.

Per commentare la rubrica scrivi a giorgia.pinelli@laliberta.info 

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