Lavoro da casa? I valori, prima degli strumenti, anche nell’emergenza

Lavorare bene da casa non è solo una questione di hardware e software adeguati, ma il frutto di un sistema di valori e obiettivi fondato su fiducia e responsabilizzazione. Un cambio culturale in azienda oggi imposto improvvisamente dalle circostanze critiche del momento, ma che potrà farci evolvere in meglio.

È il momento delle mascherine, del gel igienizzante e… dei pantaloni della tuta, quelli comodi che indossiamo mentre lavoriamo da casa, tanto non si vedranno mai in video conferenza. Si fa ovviamente per sdrammatizzare un pochino, ma è innegabile che tra i cambiamenti più significativi impostici dall’esplosione dell’emergenza sanitaria in atto – anche prima dell’entrata in vigore dei decreti governativi che hanno di fatto messo in quarantena tutta la popolazione italiana almeno fino al 3 aprile – ci sia l’aspetto del lavoro a distanza, telelavoro, smart working che dir si voglia.

L’eco si è intensificata non appena le aziende delle zone del nord Italia più colpite hanno cominciato a fare i conti col problema del work-life balance (equilibrio vita-lavoro) di molti dei propri dipendenti, chiamati a rispettare l’impegno in ufficio ma con i figli improvvisamente a casa da scuola. Poi sono arrivate le maxi serrate varate dal Governo tra l’8 e il 9 marzo – nel segno dell’hashtag #iorestoacasa – e per la maggior parte del sistema delle imprese e delle organizzazioni si è trattato di affrontare da zero e senza preparazione un problema apparentemente insormontabile.

Per una piccola parte delle realtà economiche italiane, specialmente se operanti nei servizi e ancor di più se del mondo digitale, la questione è stata meno traumatica: sono quelle che hanno già introdotto o almeno sperimentato da tempo lo smart working, non solo come opportunità organizzativa ma spesso perché sollecitate dallo stesso mercato del lavoro, che nella possibilità di operare da casa individua uno dei benefit oggi più ambiti e apprezzabili.

Io ho la fortuna di appartenere a questa minoranza, l’azienda per cui lavoro ha iniziato il percorso del telelavoro da oltre un anno e oggi si può tranquillamente dire che si tratti di una modalità consolidata, frictionless, cioè senza intoppi, alla quale nel difficile momento attuale ci stiamo affidando abbondantemente (oltre il nostro normale standard) per contenere gli effetti del disagio.

Dico questo per sottolineare come affrontare un simile cambiamento non è solo una questione di computer portatili adeguati e di connessioni stabili. L’hardware e il software sono i prerequisiti, ok, se non hai gli strumenti tecnici giusti non se ne parla neanche ed è di questo aspetto che oggi – in piena emergenza – si stanno giustamente occupando in primis le direzioni aziendali e i dipartimenti informatici e delle risorse umane delle nostre imprese: installa la VPN (virtual private network) sul pc, fai lo speed test per capire se la tua linea internet domestica regge il carico dati delle video chiamate, scegli un’unica piattaforma per conference call e chat per tutti i colleghi, etc.

In questo senso, segnalo con piacere Solidarietà Digitale, l’iniziativa del Ministero dell’Innovazione Digitale che ha coinvolto diversi provider di servizi informatici e di connettività per agevolare l’attuazione dello smart working nelle cosiddette zone rosse dell’emergenza Covid-19. È il corrispettivo digitale della sospensione dei mutui e delle imposte in caso di calamità, in ogni modo un’ottima cosa.

Ma più dell’hardware e del software, per far funzionare il tele lavoro, conta la predisposizione e la cura di un sistema di valori e obiettivi – dal punto di vista dell’azienda – e l’adesione responsabile e costruttiva allo stesso sistema da parte di ciascun lavoratore, fattori tutt’altro che semplici da garantire indipendentemente dalla tipologia e dalle dimensioni delle imprese e delle organizzazioni. Tale sistema ha come cardini la fiducia e la responsabilizzazione e di fatto impone un cambiamento culturale nel rapporto tra azienda e dipendenti e tra manager e collaboratori.

Il paradigma “stai in ufficio almeno 8 ore tutti i giorni perché abbiamo sempre fatto così” viene superato da un modello organizzativo focalizzato su obiettivi e risultati: essere sul posto di lavoro ufficiale non è infatti di per sé garanzia di successo e se si può garantire la stessa – o auspicabilmente una migliore – produttività ed efficienza anche da remoto, perché non provare?

Ma è chiaro che per riuscirci serve appunto una piena consapevolezza e l’acquisizione della responsabilità che ciò comporta: se a casa, per capirci, si cazzeggia, ti può andare bene per qualche volta, ma poi i nodi vengono al pettine e con essi viene meno la fiducia che è alla base del sistema. Ergo, a causa di pochi furbetti della tastiera, l’azienda deciderà magari di togliere questo benefit a tutti i propri addetti.

A mio modo di vedere, questo sistema è molto sano e solido: io ricevo dal mio datore di lavoro un vantaggio che mi consente di conciliare meglio le esigenze personali e familiari con quelle professionali, ma a mia volta devo garantire che esso non comporti disagi e imbarazzi per il sistema organizzativo. E possibilmente contribuire a migliorarlo. Più autonomia nella gestione dell’attività lavorativa non significa insomma deregolamentazione, anzi.

Io ho raccontato sin qui la mia esperienza privilegiata di dipendente di una illuminata digital company, ma mi rendo perfettamente conto che questo percorso virtuoso non sia così semplice da affrontare in piena emergenza sanitaria ed economica, così come siamo tutti consapevoli che ci sia un enorme gamma di impieghi in cui il concetto stesso di lavoro a distanza non è tecnicamente applicabile. Oggi si deve soprattutto badare all’essenziale, mettere i collaboratori nelle condizioni di non perdere troppi pezzi e garantire alla meno peggio l’ordinaria amministrazione degli affari.

Sono tuttavia convinto che – anche per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro – da questa drammatica strettoia usciremo logori ma un po’ migliori. Le crisi forniscono sempre maggiori motivazioni verso il cambiamento, anche se quasi sempre purtroppo con un duro prezzo da pagare. È la legge dell’evoluzione, non solo biologica, ma anche delle regole del comportamento umano.

In un frangente che ha imposto a tutti noi di riflettere sulla nostra fragilità e riconsiderare il senso dei nostri limiti, il mio auspicio è che chi se lo può permettere sia più propenso ad imparare a fare le cose in modo diverso, magari non al 100% di come erano prima ma comunque bene lo stesso – o appunto addirittura meglio – anziché semplicemente rimandare o rinunciare del tutto a farle. Test and learn, sperimenta e impara, trova soluzioni alternative e prova a vedere come funzionano. Dalla nostra zona di comfort, ahinoi, ci ha già costretti ad uscire il Covid-19 e tutti i giorni stiamo collaudando sulla nostra pelle la difficoltà di rinunciare a pezzi della nostra vita: ma al virus maligno possiamo provare a rispondere col germe dell’ottimismo, per come saremo stimolati ad adattarci e magari a trarre vantaggio da tutto questo. Anche solo per rendersi conto di come si sta dall’altra parte del muro.

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