Parasite, molto rumore per nulla

Fino all’inizio del nuovo millennio a nessuno in Italia interessava la Corea. A parte Pak Doo-Ik, il giustiziere dell’Italia ai mondiali del ’66 che però era della Corea del Nord, per tutti i sudcoreani erano i cugini sfigati dei giapponesi che facevano macchine dalla linea orribile. Poi arrivarono i mondiali del Corea e Ahn, la Hyundai che si mise a produrre autovetture decenti e infine, agli inizi del nuovo millennio, una pattuglia di registi sudcoreani capitanata da Park-Chan Wook (di cui se vi definite amanti del cinema dovete almeno conoscere la sua sublime trilogia della vendetta, Mr. Vendetta, Lady Vendetta ma soprattutto Old Boy) che cominciò a mietere successi a livello internazionale. Tra questi registi c’era anche il buon Bong Joon-Ho, che si fece conoscere nel 2003 con l’ottimo Memories of Murder, un thriller/noir/poliziesco a cui una serie come True Detective deve più di qualcosina.

Oggi, svariati film dopo tra cui l’ottimo fantascientifico/distopico Snowpiercer, il buon Bong torna sugli schermi con Parasite, baciato da una palma d’oro all’ultima edizione di Cannes e dal plauso incontrastato della critica che parla apertamente di capolavoro.

Bene, Parasite è un film assolutamente normale, carino, con qualche buona trovata a livello di sceneggiatura e una regia assolutamente adeguata. Diverse riprese sono veramente efficaci, e alcune scene lasciano trasparire attimi di bizzarra inquietudine che giovano molto alla resa atmosferica del film. Ma è davvero tutto qua. La storia vorrebbe essere di per sé una sorta di dissacrante tragicommedia noir e grottesca sulle differenze di classe nella moderna Corea del Sud, e nella prima parte ci riesce anche. Il problema sta nella seconda metà del film. Dopo un inizio preparatorio, non esaltante ma con qualche momento ben riuscito, quando la vicenda dovrebbe decollare per poi deflagrare in tutta la sua veemenza, ecco che s’inceppa. Ed è un peccato, perché l’idea iniziale non era male, ma è lo sviluppo però a non essere così interessante. Una famiglia di reietti, che cerca di intrufolarsi in ogni maniera in una casa di ricchi benestanti facendosi assumere come precettori dei figli e domestici per godere di un po’ della loro ricchezza riflessa, avrebbe meritato un’escalation di colpi di scena, follia e violenza di molto superiore a quella offertaci dal regista coreano.

Così invece, l’unica cosa che rimane dopo la visione di questa pellicola è il senso di squallore sociale e morale che non risparmia nessuno dei protagonisti. I poveri sono furbi e calcolatori, ma di fronte alle doti di adattamento dimostrate da alcuni di loro viene ad un certo punto da chiedersi come facciano ad essere in quella situazione. I ricchi sono stupidi, un pochino spocchiosi ma anche facilmente raggirabili, un po’ come nei vecchi film di Totò insomma.

Alla fine non un brutto film, ma che dimostra inesorabilmente che i riconoscimenti delle giurie dei concorsi cinematografici insieme al plauso della critica arrivano sempre o fuori tempo massimo o in totale ritardo.

Bong, hai fatto decisamente di meglio in passato, quindi ti auguro di tornare a farlo. Puoi e sai fare molto di più di un compitino striminzito come questo.

E’ solo un sei per il momento, e se gli squadroni della morte di cinefili-cinofili che affollano le sale d’essai coi loro maglioncini, sciarpine fighe e occhiali da intellettuale con montatura trendy accompagnati dalle loro slavate amichette vestite rigorosamente vintage la pensano diversamente, è solo perché sono troppo sottosviluppati per capire la differenza tra un gran film e un prodotto assolutamente ordinario come questo. 

Mj Silent

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