I perché di un ritorno

Così monsignor Caprioli nel 60° di Ordinazione presbiterale

Da La Libertà del 26 giugno

Pubblichiamo l’omelia che il vescovo emerito Adriano Caprioli ha tenuto in Cattedrale nella Messa del 20 giugno, in rendimento di grazie per il suo 60° anniversario di Ordinazione presbiterale.  Tutto il servizio fotografico di Codazzi è sul nostro sito www.laliberta.info (Foto 2019).

Ritornare agli anni che mi hanno visto ordinato sacerdote per le mani dell’allora Arcivescovo Card. G. B. Montini, in Duomo a Milano, e celebrare la Prima Messa nella mia parrocchia di origine di Solbiate Olona, è per me motivo di tante emozioni, ricordi, riflessioni. Provo a mettere in fila i sentimenti prevalenti alla luce di un recente libro di Papa Francesco su “La forza della vocazione”. Interrogandosi sui “perché di un ritorno” alla vita consacrata, ne indica tre.

Guardare al passato con gratitudine

Il primo è una semplice constatazione. Il tempo passa. Anch’io sono giunto al Salmo che dice: “Settanta gli anni della vita, ottanta per i più robusti” (Salmo 90,10).
Nella nostra società della fretta e del “tutto subito” si dice che “chi si ferma è perduto!”. Gesù, al contrario, vedendo ritornare i suoi apostoli dalla missione che aveva loro affidato, li invita a sostare (cf. Marco 6,30). Avevano tanta fatica nelle gambe e tante emozioni nel cuore! Era come se volesse dire: “Il fare è importante, ma altrettanto importante è sostare”.

È l’invito che qualche prete più anziano mi rivolgeva durante le Visite pastorali, quando mi vedeva affaticato: “Avanti, adagio, quasi indietro!”. Come a dire: va bene andare avanti, ma senza correre, imparando a guardarsi indietro, a non perdere la memoria di chi ti ha preceduto.
C’è bisogno allora di fermarsi, di sostare, di ricordare. Ripenso all’allora nostro Rettore del Seminario di Venegono, diventato poi Arcivescovo successore di Montini, il Card. Giovanni Colombo, che ci ha detto prima di lasciare il Seminario: “Ricordatevi della pietra dalla quale siete stati stagliati”.

E la pietra di cui fare memoria non era solo l’edificio bianco del Seminario che lasciavamo, ma erano le pietre vive di quell’edificio, di quella casa che era la nostra vita: le persone della mia parrocchia e dell’oratorio di Solbiate che mi ha visto ragazzo, le figure dei miei sacerdoti che mi hanno accompagnato alla ordinazione in Duomo: Don Ugo, Don Mario.
Il primo, Don Ugo il parroco, mi ha insegnato ad amare i libri, ma soprattutto a stare con la gente. L’altro, don Mario, ad amare i ragazzi e i giovani, anche quando non la pensano come la Chiesa, con i fatti.

Vivere il presente con passione

Non basta però ricordare il tempo passato, ringraziare le persone che ci hanno voluto bene. Occorre il coraggio di vivere il presente con passione e benedire il nostro tempo, questo nostro tempo. A questo coraggio aveva sollecitato me e i miei 40 compagni di classe lo stesso Arcivescovo Montini nella sua bella omelia di Ordinazione:
“Benedite Iddio, che vi fa vivere in questi anni ed in un mondo in cui davvero non si dorme e in cui non si sciupano i doni di Dio e si è quasi obbligati a moltiplicarli per la stessa pressione del mondo in cui dobbiamo entrare. Benedetti questi anni che possono essere decisivi per il nostro popolo e la nostra storia”. Anch’io sognavo, come i miei compagni di classe, un bell’oratorio con tanti ragazzi e giovani. Ma il Signore e i superiori hanno voluto diversamente, e oggi ne capisco il perché, e ne sono contento.

Certo, in questi 60 anni di sacerdozio sono cambiate tante cose. Ce lo aveva anticipato sempre Montini in quella omelia: “È vero che vi aspettano folle esultanti, parrocchie bellissime, oratori pieni di festa… Ma guardiamo il mondo… troverete anime distratte, anime incapaci di avvertire il lato spirituale delle cose. C’è tanto laicismo, ed anche nelle nostre file va serpeggiando”. Erano gli anni della missione di Milano (1957), conclusi con il pellegrinaggio alla Grotta di Lourdes, dove ho visto piangere il Card. Montini, mentre parlava della scristianizzazione delle periferie di Milano, di parrocchie senza chiese. E, tuttavia, ordinandoci sacerdoti ci incoraggiava così: “Anche questa società, che sembra così refrattaria a introdurre il sacerdote, è poi quella che lo chiama a gran voce, e che gli offre non più un solo posto, ma cento posti, e che vuole sacerdoti in ogni momento, in ogni fase e manifestazione della propria vita”.

E poi aggiungeva, quasi con una punta di umorismo: “Il vostro ministero, figlioli miei, non sarà più quello che vi è stato dipinto dalla letteratura del secolo scorso – come il Don Abbondio di Manzoni – del sacerdote tranquillo, che passa la sua giornata dicendo la Messa, passeggiando nella recita del Breviario, e facendo due chiacchere con la prima persona che incontra. NO, vi aspetta un ministero di intensità, un ministero febbrile, che non vi darà requie dalla mattina alla sera”.
E concludeva: “Non rifiutatevi! Guai a voi se doveste dire: io mi sono impegnato per questa forma di apostolato, io limito la mia risposta a quello che sono capace di fare e non ad altro. NO, bisogna modellare il nostro sacerdozio e la nostra azione sui bisogni degli altri e non sulle nostre attitudini. Non importa se faremo cattiva figura, non importa se sciuperemo i nostri anni, la nostra salute, non importa se non avremo l’agio di fare vacanze… Abbiate pazienza, figlioli miei!”.

Guardare al futuro con speranza

Come si poteva fare il prete, dimenticando queste parole di un arcivescovo, di un futuro Papa? Mi dispiace solo una cosa: che non bastano 60 anni per metterle in pratica. Ci vorrebbero altri 60 anni.
Ma questo non è possibile, se non consegnando ad altri giovani questo progetto di vita anche umanamente bella, come è stata per me quella del sacerdote, che non conosce la noia e trova ogni giorno ragioni positive per cui servire.

E pregando, perché il Signore susciti altre vocazioni anche in queste nostre parrocchie, oratori, scuole e famiglie, qui a Reggio Emilia. È la preghiera che amo condividere con i sacerdoti qui presenti, in particolare i miei compagni di Ordinazione (ordinati dal vescovo Socche qui a Reggio, lo stesso giorno, il 28 giugno 1959): Don Creardo Cabrioni, Mons. Giovanni Costi, Don Tullio Menozzi, Don Mario Pini, Mons. Pellegrino Tognoni, Don Amedeo Vacondio.

Sono questi i pensieri, i sentimenti e la preghiera che amo rivolgere al Signore e per quanti – familiari, parenti, amici, confratelli – che hanno accompagnato in questi giorni con molteplici segni di affetto, di amicizia e di preghiera il volgersi del tempo della mia vita verso il vero traguardo che tutti ci accomuna.

+ Adriano Caprioli

 

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