Democrazia indebolita, non malata seriamente

Parla il direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Cattolica

“Rispetto a vent’anni fa, è cambiato lo scenario globale in cui le democrazie si trovano a vivere”. Parte da qui Damiano Palano, direttore del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica, per analizzare lo stato della democrazia nel mondo e le sue prospettive.

Professore, si è ritenuto che la democrazia, almeno nell’Occidente, fosse un fatto acquisito, ma da almeno 15 anni ci stiamo accorgendo che non è così. Quali le ragioni?
I motivi di quella che alcuni politologi chiamano “recessione democratica” sono diversi. In primo luogo, si è esaurita la spinta propulsiva della “terza ondata” di democratizzazione, iniziata alla metà degli anni Settanta ed esplosa soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso. Allora sembrava che l’estensione globale della democrazia dovesse procedere gradualmente ma senza sosta.

Invece cos’è successo?
Poco meno di una quindicina di anni fa la marcia si è arrestata. Il numero delle democrazie (intese anche in un senso piuttosto blando) non è più cresciuto. Anzi, secondo Freedom House, un’organizzazione che si occupa di “mappare” lo stato della libertà nel mondo, gli ultimi tredici anni sono stati contrassegnati da un costante arretramento. Alcuni Stati che avevano imboccato la via della “democratizzazione” (come per esempio la Russia e molte delle repubbliche ex-sovietiche) sono tornati a essere regimi autoritari, “autoritarismi competitivi”, o comunque regimi “ibridi” non pienamente democratici. Inoltre, alcune delle nuove democrazie (soprattutto Ungheria e Polonia) hanno imboccato una deriva “illiberale”.

E nelle democrazie “consolidate” qual è la situazione?
Anche qui ci sono segnali di instabilità che destano allarme, come per esempio l’ascesa di forze “anti-sistema”, il ricorso alla delegittimazione degli avversari politici, la crescente polarizzazione o le tensioni che mettono in discussione la divisione dei poteri. In questo caso i motivi hanno a che vedere con le conseguenze della crisi economica globale, che in un decennio ha fatto emergere l’aumento delle diseguaglianze. Ma, oltre che in termini economici, le tensioni di oggi sono state spiegate anche come reazioni “culturali” alla globalizzazione. Secondo questa tesi, i ceti popolari delle democrazie occidentali ritengono che i loro valori, il loro status, la loro sicurezza sia minacciata dalla globalizzazione. E manifestano anche un’avversione nei confronti di quelle che impropriamente si usano chiamare le “élite”, considerate irrimediabilmente distanti dal “popolo”, più che per la ricchezza, per i loro valori “cosmopoliti”.

Continua a leggere l’articolo di Alberto Baviera su La Libertà del 13 marzo

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