Debitori insolventi

In una bella serata limpida, mentre i miei figli si preparano ad andare a dormire,osserviamo la costellazione di Orione e per l’ennesima volta ripercorriamo il racconto mitologico (i bimbi vanno pazzi soprattutto per l’amicizia tra il gigante e il suo cane Sirio).“Che belle le stelle”, dice Agostino a un certo punto. “Sì, Dio è stato proprio gentile a farle” chiosa Riccardo.

La mattina dopo, in treno, un giovane di forse vent’anni sta strepitando al telefono. Ha lasciato lo smartphone in macchina, nel parcheggio della stazione: dall’apparecchio della fidanzata sta cercando di convincere la madre a recuperarglielo. «Mamma, è colpa tua! Per portarti a lavorare sono arrivato in stazione di corsa e ho dimenticato il telefono in macchina. È nel cassetto del cruscotto. E se qualcuno rompe il vetro e mi apre i cassetti? Lo trova, me lo ruba. Tu adesso vai a riprendermelo!». Un breve silenzio e il diluvio riprende: «Non me ne frega un c**** se sei a lavorare, adesso ti muovi e vai. Ti arrangi, fatti dare un passaggio oppure c’è l’autobus. Fai l’autostop, ma tu adesso ci vai, hai capito?!». E infine: «Mamma, non capisci veramente un c****!». Su queste parole si chiude la telefonata: la fidanzatina si riprende lo smartphone e inizia a chattare, lui si tiene la testa tra le mani con aria di disperazione. Qualcuno commenta – nemmeno troppo a bassa voce, forse sperando di farsi sentire dal diretto interessato: «Patetico, uno così grande e grosso che fa i capricci come un bimbo di due anni», «Se quel bamboccio lì fosse mio figlio altro che vestiti firmati e smartphone. Due bastonate e poi a lavorare!», «Che vergogna, è grazie al lavoro di sua madre se lui è qui sul treno a giocare all’universitario!», e via di questo passo.

Comprendo che proprio questo ha colpito anche me, che forse mi immedesimo con facilità in quella madre così strapazzata: un senso di profonda ingiustizia per la totale gratuità di quell’aggressione verbale, losgomento per un’ingratitudine di fondo. Non è solo l’incapacità di riconoscere la persona all’altro capo del filo e di mettersi nei suoi panni. Più ancora, mi colpisce – quasi mi ferisce – questa specie di cecità:il fatto che quel figlio nonprenda nemmeno in considerazione, nel suo rapportarsi alla madre, tutto quello che c’è attorno, e prima, e oltre lo smartphone dimenticato, il passaggio, il parcheggio, il lavoro. Per questo, dopo l’iniziale moto di sdegno, mi sorprendo a pensare chequel ragazzo mi fa pena. Tutto sommato ci riconosco me stessa ogni volta che mi perdo in un bicchiere d’acqua. Ogni volta che pretendo e rivendico, ogni volta che mi concentro su quello che mi sarebbe dovuto (e non importa quanto a torto o a ragione). Ogni volta che passo attraverso le mie giornate senza riconoscere l’altezza e la profondità del mistero che le abita. Perché ci sono tanti modi di fare i capricci, con gli altri e con Dio.

Nel suo San Francesco (1923) Chesterton ricostruisce l’incredibile folgorazione che capovolse e trasformò irrimediabilmente la prospettiva (e la vita) del Santo di Assisi. La stessa che aveva toccato anche lui, nel momento più buio della sua esistenza, spingendolo sulla via della conversione.

“L’enunciazione più concisa di questa folgorazione è dire che si tratta della scoperta di un debito infinito. Può sembrare un paradosso dire che un uomo può esultare di gioia scoprendo di essere in debito. […] Dire che se un uomo è veramente consapevole di non poter pagare il proprio debito lo pagherà per sempre è il più elevato e il più sacro dei paradossi. Restituirà per sempre ciò che non può restituire mai e che non ci si può aspettare che restituisca. Continuerà per sempre a profondersi in un pozzo senza fondo di infiniti ringraziamenti. Chi pensa di essere troppo moderno per capirlo, in realtà è troppo meschino per poterlo capire; quasi tutti noi siamo troppo meschini per metterlo in pratica. […] Bisogna avere quella magnanimità di arrendersi, di cui normalmente si ha solo una vaga percezione quando ci si innamora per la prima volta, come in una fugace visione del nostro paradiso perduto. Ma che lo si veda o no, la verità sta in quell’enigma: che tutto il mondo ha, o è, un’unica cosa buona, cioè un debito non pagato”.

Ogni nostra pretesa, anche la più ragionevole, deve prima o poi scontrarsi con questo semplice fatto. Siamo tutti debitori insolventi. E in questa radicale e strutturale povertà, che è precisamente la nostra essenza di creature, sta la ragione della nostra vera grandezza. Tutto quello che siamo e che abbiamo, tutto ciò che ci sta a cuore, lo abbiamo ricevuto.

“Le stelle brillano dalle loro vedette e gioiscono; Egli le chiama e rispondono «Eccoci!». E brillano di gioia per Colui che le ha create” (Baruc 3, 34-35): ripenso ai miei figli e alle stelle, e capiscocosa vuol dire che se non torneremo come bambini non entreremo nel Regno dei Cieli. Chi sa di essere stato fatto – che tutto è stato fatto – può brillare di gratitudine per il suo Fattore. Chi intuisce che ogni cosa gli è donata può gioire della generosità del Donatore. Chi ha occhi per vedere la realtà in trasparenzavede anche l’abisso di gloria che ne è l’origine e assieme il compimento: riconosceilvoltoche si nasconde dietro tutto ciò che accade, ode la voce che come sussurro chiama da dentro la creazione.

Un Volto,per il cui splendore si struggono in adorazione gli angeli, che si offre ai nostri occhi di carne attraverso le fattezze di un Bambino. UnaVoce, al cui suono è stato fatto l’universo e alla quale anche la luce obbedisce con tremore, che si lascia imprigionare in un vagito di neonato.

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