«Pensar non nuoce»: Guareschi docet

A colloquio con Alberto, figlio di Giovannino

“Qui è molto soft”, dice Alberto Guareschi mentre ci accomodiamo su una panchina di fianco al santuario Sacro Nome di Maria, del dodicesimo secolo, tra i campi di Busseto. Manca meno di un’ora alla serata organizzata in memoria del padre Giovannino, nel 50° anniversario della morte, che avrà il vescovo Massimo tra i relatori (si veda La Libertà del 12 settembre). Mentre in chiesa la Corale prova i brani di Giuseppe Verdi, Guareschi ricorda che il grande musicista da giovinetto si è cimentato alla spinetta proprio nella vicina canonica. Rispetto all’omone dal baffo prorompente che le foto ci hanno consegnato, il figlio, classe 1940, appare una figura più magra, persona di una gentilezza squisita, umilissima. E con una sua ironia sottile. “Ho fatto il compito?”, chiederà alla fine del colloquio…

Nella bassa padana di oggi e nella gente che la popola riconosce ancora il “Mondo Piccolo”?
Vengo proprio adesso dal cuore di questo mondo agricolo: sono stato alla presentazione del libro di Alessandro Gnocchi “Lettere ai posteri di Giovannino Guareschi” (Marsilio editore) e ho riconosciuto quello che avevo visto cinquant’anni fa. Secondo me il Mondo Piccolo non è cambiato e nemmeno la sua gente, il sistema di confrontarsi l’uno con l’altro e soprattutto di mettere sempre l’uomo al centro di ogni cosa.

Come definirebbe la fede di suo padre?
Una fede naturale, che non ha bisogno di ragionamenti. Lui ce l’aveva dentro: è un dono di Dio, non saprei in che altro modo classificarla. E poi diciamo che Giovannino ha avuto la fortuna di avere per madre (Lina Maghenzani, maestra elementare a Fontanelle di Roccabianca, ndr) una profonda credente, che gli ha trasmesso i buoni sentimenti.

A vostra volta, per lei e sua sorella Carlotta, la trasmissione della fede è avvenuta per via naturale?
Ci siamo trovati dentro la fede e non ci siamo mai neanche chiesti perché. Ci sta benissimo così.

Papà famoso. Anche ingombrante per voi?
No, perché era una persona molto intelligente, non faceva il personaggio, era in “presa diretta”. Soprattutto, quando era in casa lasciava sempre il lavoro fuori dalla porta e non ne discuteva mai con noi. Ugualmente parlava di cose serie e a volte, anche, ‘rompeva’ un po’…

In che senso?
Nel senso che voleva vedere i compiti, la cartella… sicché noi gli dicevamo “Ma babbo, lascia stare ché sei stanco, ci pensa la mamma…”. E lui: “No, no, fammi vedere!”.

Autorevole…
Un’autorevolezza non ostentata. Non c’era bisogno che calcasse la voce, perché gli bastava uno sguardo.

Leggi tutta l’intervista di Edoardo Tincani ad Alberto Guareschi su La Libertà del 19 settembre

 

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