Ancora su fotografia e verità

Tante volte ormai, nelle note di questa rubrica, ho ribadito quanto siano connesse fra di loro i sostantivi fotografia e verità. La fotografia viene inventata, sarebbe meglio dire pensata, proprio perché si voleva rendere la realtà esattamente per quello che era. Tutto il contrario della pittura che tendeva ad abbellire ciò che bello non era, ad abbruttire quello che era bello, a togliere ciò che dava fastidio e ad aggiungere oggetti o cose che nella realtà non c’erano proprio. In soldoni ne dava in ogni caso una interpretazione.

Lungi da me dire che l’una è bene e l’altra è male, sto solo affermando quelle che sono le differenze. È pur vero, d’altra parte, che, dopo pochi anni dalla nascita della fotografia, arrivarono subito una serie di artifici come filtri, lenti particolari o interventi in camera oscura, capaci di rendere, anche qui, bello ciò che non era e di aggiungere e di togliere, ma questo fa i conti con la natura dell’uomo e non con il significato semantico del sostantivo fotografia.

A. Crane: E. W. Smith nel suo studio a Pittsburg

A proposito di questo vale la pena di andarsi a fare un giro in quel di Bologna, in via Speranza, 42, nella sede della fondazione MAST. L’importante istituto bolognese presenta una mostra interamente dedicata al fotografo americano W. Eugene Smith (1918-1978) e alla monumentale opera realizzata a partire dal 1955 a Pittsburgh negli Stati Uniti.

Copertina del libro Dream Street

Ho già scritto su questa faccenda proprio un anno fa, raccontando come andò la vicenda, ma voglio approfittare della mostra allestita al Mast perché possiate toccare con mano, andandola a vedere, quanto sia vero quello che sostengo, cioè l’importanza di raccontare la verità con la fotografia, perché se non è così tanto vale prendere tavolozza e pennello e farci su un bel quadro.

Un ultima nota: Smith iniziò il lavoro a Pittsburgh nel 1955 pensando di finirlo in tre mesi, ma ci rimase tre anni. Non riuscì mai a pubblicare il suo lavoro per intero, un lavoro che raccontava una città per quello che era veramente e non per quello che volevano mostrare quelli che gli avevano affidato l’incarico. Lo fece il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh nel 2001, 23 anni dopo la sua morte.

Forse che la verità fa sempre fatica a saltare fuori e non solo in Italia?

Per commentare la rubrica scrivi a giuseppemariacodazzi@laliberta.info

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