Riconoscere il volto

In un confronto sulla drammatica vicenda del piccolo Alfie Evans un’amica mi ricorda un passaggio dell’enciclica Spe salvi di Benedetto XVI: “Chiediamoci ora di nuovo: che cosa possiamo sperare? E che cosa non possiamo sperare? Innanzitutto dobbiamo costatare che un progresso addizionabile è possibile solo in campo materiale. […] Nell’ambito invece della consapevolezza etica e della decisione morale non c’è una simile possibilità di addizione per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio. […] Il tesoro morale dell’umanità non è presente come sono presenti gli strumenti che si usano; esso esiste come invito alla libertà e come possibilità per essa” (n. 24).
Parole che oggi suonano profetiche: quanto accaduto a Liverpool scoperchia una volta di più il mistero dell’ingiustizia umana, dell’orgoglio contrapposto alla sofferenza innocente, della nostra radicale e dolorosa impotenza; e, nell’immediato, ci costringe a riconoscere che non vi sono evidenze guadagnate una volta per tutte e che ogni generazione può dilapidare con un colpo di spugna l’eredità faticosamente consegnatale dai padri. Proprio per questo non possiamo esimerci dalla fatica di comprendere: affinché ciò che è successo si incarni nella nostra esperienza, diventi parte della nostra comprensione di noi stessi e del mondo.

Il caso di Alfie (e, prima di lui, quello di Charlie Gard o di Isaiah Astruup) lascia infatti emergere il compimento di un percorso, l’affermarsi di una visione del mondo e dell’uomo che si è ormai imposta nel sentire comune, e più ancora nelle sedi decisionali e nelle istituzioni. Di tale visione fa parte innanzitutto un modo potenzialmente elitistico di concepire la democrazia, ridotta – come sembra accadere ai giorni nostri – a insieme di procedure che si giustificano e si esauriscono in se stesse senza alcuna domanda di tipo “valoriale”. Quest’ultima è delegata a pochi centri di potere, raramente “eletti”, che dispongono di sempre più ampie prerogative decisionali su questioni sensibili.

In controluce si profila la mai ricomposta dialettica tra diritto di natura e diritto positivo/statuale, tra “ragioni degli dei” e leggi umane, alla quale già nel 442 a. C. dava voce l’Antigone di Sofocle. La tragedia della giovane donna, condannata dal tiranno Creonte ad essere murata viva per aver sepolto il fratello violando le leggi della città, mette a tema il conflitto tra un ordinamento presente in natura ed intrinseco al reale, che esige di essere riconosciuto dagli uomini come principio e criterio delle loro azioni, e un ordinamento prodotto dal potere sovrano, che può decidere di emanare leggi a prescindere dall’ordine di natura, rimodellando quest’ultimo ad arbitrio. Di fronte alla vicenda di Alfie sorge spontaneo domandarsi con quale autorità un giudice possa stabilire che un altro essere umano sia privato dell’aria, dell’acqua e del cibo; e diventa nostro il grido di Antigone all’indirizzo di Creonte: “Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi o da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero. Potevo io per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi davanti agli dei?”.
A questa visione del mondo appartiene anche una curiosa inversione antropologica. Un vero e proprio rovesciamento in virtù del quale la persona umana è ormai ridotta a cosa, misurata nel suo valore a partire da criteri che normalmente applicheremmo agli oggetti e ai prodotti del nostro operare: utilità, funzionalità, costi/benefici. Ne deriva, inevitabilmente, un mutato modo di concepire il rapporto tra persona e Stato. Non più l’essere umano come detentore fin dalla nascita di “diritti naturali” (cioè radicati nella sua essenza reale) di fronte a un potere politico che non può travalicarli se non divenendo illegittimo; ma lo Stato come erogatore/negatore di libertà, di dignità, di diritti (non ultimo il diritto alla vita).

Questo ribaltamento antropologico si fonda a sua volta su una più generale involuzione nichilistica della nostra cultura (non esclusi gli ambiti medico e giuridico). Pronunciamenti di tribunali e pareri medici riecheggiano sinistramente l’idea nazista della Lebensunwertes Leben (la “vita indegna di essere vissuta”) e ripropongono per noi l’antica sentenza del Sileno: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena […] Il meglio per te è […] non essere nato, non essere, non essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto”. Smarrito un più ampio orizzonte di senso nel quale leggerla, l’esistenza (con tutto il suo carico di limite e di imperfezione) si presenta ai nostri occhi come peso non richiesto, come beffa crudele: e ci convinciamo che sia “migliore interesse” il morire piuttosto che il vivere per chi non risponda a determinati parametri, per chi non possa partecipare di un certo “benessere”.
Queste convinzioni, sempre più spesso presentate come lapalissiane nel dibattito pubblico, hanno ciascuna il proprio percorso e la propria origine (facilmente rintracciabili nella storia del pensiero

Continua a leggere l’articolo di Giorgia Pinelli su La Libertà del 9 maggio



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