L’eredità di Alfie

Nei giorni scorsi il “caso” di Alfie Evans ha tenuto il mondo con il fiato sospeso. Anche noi attraverso La Libertà non abbiamo voluto far mancare il nostro contributo di partecipazione, anzitutto come vicinanza e sostegno nella preghiera al piccolo e alla sua famiglia. La settimana scorsa, poi, abbiamo dedicato la copertina, “Vita da custodire”, al fiume di preghiera che si è generato in tante parti del mondo. L’epilogo della vicenda ha spento le speranze che il bambino potesse essere portato in Italia e curato più efficacemente, ma non diminuisce, anzi amplifica, l’impegno per l’affermazione del valore della vita umana e per l’assunzione collettiva di responsabilità. Anche per questo ritorniamo sulla questione con gli interventi di due nostri collaboratori, un medico e un’insegnante di filosofia, che ci aiutano a mettere ulteriormente a fuoco la riflessione.

In queste ultime settimane siamo stati tutti emotivamente coinvolti dalla vicenda del piccolo Alfie. In virtù anche del grande potere dei media che oggi riescono ad attirare la nostra attenzione su vicende lontane nello spazio, ma vicine e toccanti per la loro attualità e problematicità.
Per chi come me esercita la professione medica da anni in realtà è quasi quotidiano osservare, anche se con sfaccettature molto diverse, il dramma di tante persone che vivono sulla loro pelle e/o su quella dei loro familiari malattie devastanti e toccano con mano quel sottile filo che separa la vita e la morte. È un grande sommerso di cui poco si parla se non per alcuni casi che vengono enfatizzati anche, più spesso, a fini strumentali.
Le domande riguardano il confine tra la vita e la morte, chi deve decidere e quale relazione oggi tra medici, pazienti e famiglie.
È sempre difficile esprimere pareri, anche se tecnici, senza conoscere in profondità tutti i dettagli della situazione di cui si vuole parlare. E così è anche per la vicenda del piccolo Alfie. Al di là del dramma umano del piccolo e dei suoi genitori, questa storia ha riportato prepotentemente alla ribalta una serie di questioni difficili da affrontare. La prima questione attiene al confine tra la vita e la morte. Cosa fare quando non è più possibile guarire. Se sia lecito sospendere o non praticare cure perché futili o addirittura nocive per il benessere della persona, quand’anche potessero prolungarne la vita di poco e quando questo può essere attuato.
L seconda questione riguarda la competenza di una decisione. Cioè se la eventuale sospensione di cure o il loro prolungamento siano nella piena disponibilità della persona malata o invece nella scelta di chi deve curare, cioè dei medici. Questione ancora più problematica nel caso di un minore quale era Alfie, in quanto si tratta di capire fino a che punto un genitore può decidere in vera libertà e senza condizionamenti ciò che riguarda il bene di un figlio.
La terza questione è di tipo culturale e cioè investe la relazione medico-paziente-famiglia. Quella relazione che, anche nell’ultima legge sul biotestamento, viene stressata come “alleanza terapeutica” e cioè come un patto che richiede il consenso della persona malata per procedere all’applicazione di cure o alla loro non applicazione in ottemperanza anche a quanto previsto dalla nostra costituzione.
Vivere e morire con dignità: le domande.
La prima questione non è facile da affrontare. Da una parte l’attaccamento alla vita, il desiderio di trattenere il più possibile accanto a sé una persona cara. Dall’altra parte il riconoscere che la morte è parte della vita, la parte finale di ogni vita. E come tale occorre che venga data ad ogni persona la possibilità di viverla con quella dignità e quel rispetto che è dovuto al valore supremo che in essa è racchiuso, indipendentemente dalle sue condizioni fisiche e psichiche.

Continua a leggere l’articolo di Giuseppe Chesi Medici cattolici Reggio Emilia su La Libertà del 9 maggio

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