Finché un dio non ci chiama

Serse: La tua è una tribù affascinante. Persino ora sei spavaldo di fronte all’annientamento, e in presenza di un dio. Non è saggio mettersi contro di me, Leonida. Immagina quale orribile fato attende i miei nemici quando io ucciderei con gioia ognuno dei miei uomini per la vittoria.

Leonida: E io morirei per ognuno dei miei.

Serse: Voi Greci amate la vostra logica. Ti suggerisco di adoperarla. Pensa alla splendida terra che tanto vigorosamente difendete. Figuratela ridotta in cenere per un mio capriccio. Pensa al destino delle vostre donne…

Leonida: È ovvio che non conosci le nostre donne. Avrei potuto portare anche loro qui, a giudicare da quello che ho visto. Tu possiedi molti schiavi Serse, ma pochi guerrieri. […]

Serse: Non ci sarà alcuna gloria nel tuo sacrificio. Presto cancellerò persino il ricordo di Sparta dagli annali. Ogni pergamena scritta dai Greci verrà bruciata! A ogni storico greco, a ogni scriba verranno cavati gli occhi, e la lingua sarà loro mozzata! Chiunque evocherà il solo nome di Sparta o di Leonida sarà punibile con la morte! Il mondo non saprà mai che siete esistiti, Leonida.
Leonida: Il mondo saprà che degli uomini liberi si sono opposti a un tiranno, che pochi si sono opposti a molti, e, prima che questa battaglia sia finita, che persino un dio-re può sanguinare”.

Così il regista Zack Snyder, nel suo 300, immagina il dialogo tra l’eroico re guerriero Leonida di Sparta e il temibile Serse, il “re-dio” persiano che nel 480 a. C. intraprese una spietata campagna di conquista della Grecia per vendicare la cocente sconfitta subita dall’esercito del padre Dario dieci anni prima a Maratona.

Presso il passo delle Termopili, com’è noto, un contingente greco – raccolto attorno a trecento valorosi Uguali di Sparta – resistette contro ogni previsione per tre giorni contro l’elefantiaco esercito di Persia. I Greci furono annientati a causa della sproporzione numerica e del tradimento perpetrato da Efialte, che mostrò ai Persiani un passaggio per accerchiare gli avversari. Il sacrificio di Leonida e dei suoi uomini tuttavia rallentò l’avanzata di Serse, consentendo alle poleis greche di organizzarsi per resistere all’invasione.

Questa vicenda, citata en passant con riferimento al film in un’ultima ora di lezione dedicata allo Stato platonico, ha il potere di catturare l’attenzione di questi miei ragazzi che già presentono l’imminenza del weekend. “Prof, ci racconta la storia?” (che tenerezza questa richiesta, così simile a quella che i miei figli mi rivolgono ogni sera). Un improvviso silenzio accompagna il rinnovarsi, nella narrazione, dell’eroica e tragica impresa. Eccolo quello scintillio, lo stesso che vedo negli occhi sgranati dei miei figli quando ascoltano questi racconti (“Ma è vero? Mamma, è successo davvero? Leonida è andato in Paradiso, vero?”). Proprio sulla morte del re ci sorprende la campanella: zaini raccolti frettolosamente, rumore di banchi e sedie spostati, saluti sorridenti lanciati dalla porta mentre qualcuno già deve correre a prendere l’autobus. Alcuni ragazzi si fermano, solo per un attimo: “Prof, è una storia bellissima, non me la ricordavo così bella”. “Leonida è un grande”. “Io il film l’ho visto, io ho letto il graphic novel…”.

Cos’è che continua ad affascinarci in queste vecchie storie? Il coraggio, l’eroismo, il valore, certo. Ma c’è qualcosa di più. Il sessantenne Leonida sapeva di andare incontro a morte certa quando intraprese il viaggio verso le Termopili. L’oracolo di Delfi aveva parlato: “A voi, o Spartani dalle larghe piazze:/ o la vostra città sarà distrutta dai discendenti di Perseo/ o ciò non avverrà, ma Sparta piangerà/ la morte di un re della discendenza di Eracle” (così Erodoto nelle sue Storie).

Il dio aveva chiamato, la sua voce indicava la strada. Leonida aveva una patria da difendere, una nazione da custodire, persone da proteggere. Aveva uomini e amici e compagni, “e io morirei per ognuno dei miei”. La sua vita, lo comprendeva bene, non era solo sua. Sapeva per cosa, per chi vivere: dunque sapeva anche per chi si stava sacrificando, sapeva che ne valeva la pena.

È questo che ci fa vibrare di commozione e rende un uomo vissuto 2500 anni fa incredibilmente contemporaneo e familiare per un giovane, per me, per i miei bambini: anche oggi. La sua storia è la storia di ogni uomo, porta con sé una domanda che è di ciascuno: perché vivo, per chi vivo? Tutti, prima o poi, ci scontriamo col nostro personale Serse e le sue insinuazioni, che ci trafiggono da dentro le circostanze: non vali nulla, i tuoi sforzi non valgono nulla; vano è ogni tuo sacrificio, ogni slancio, ogni passione. Ogni vero e grande racconto ci ripropone l’abissale questione: che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima, se perde se stesso? (Mc 8, 36). Perché vivi, perché ti alzi, perché mangi, perché lavori e fatichi e soffri e ami e speri e, infine, muori?

“In una sorta di prigione siamo rinchiusi noi uomini, e non è lecito liberarsi da soli, né evaderne. […] gli dei si prendono cura di noi, e noi uomini siamo un po’ come loro possesso”: così afferma Socrate nel Fedone platonico. Può accaderci d’improvviso di scoprirci prigionieri nella fatica monotona delle nostre giornate e della loro apparente insignificanza, un carcere del quale non possiamo aprire la porta da soli per scappare. Come Leonida attendiamo la voce di un oracolo capace di chiamare a battaglia, di sospingere a imprese grandi. È davvero il rivelarsi di un dio, quel momento in cui riconosciamo la nostra stessa vita come compito unico ed irripetibile, come risposta a un invito. Mistero del nostro “io”, che è pienamente tale quando accetta di esser dato e sparso e consumato – che ciò avvenga nella violenza dirompente delle nostre Termopili o nel lento logorio quotidiano.

Le vecchie storie ci affascinano perché ci spiegano chi siamo: prigionieri in attesa, finché un dio non ci chiama.

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