Quant’è solo l’uomo dell’era postliberale

L’America, Trump e noi: intervista a Mattia Ferraresi

A presentare «Il secolo greve», lunedì 5 marzo alle 18 alla Libreria All’Arco di Reggio, saranno monsignor Camisasca e altri tre ospiti

Da New York, dove vive per raccontare gli Stati Uniti come corrispondente per Il Foglio, arriverà a Reggio, alla Libreria All’Arco, lunedì 5 marzo alle 18. Mattia Ferraresi, nato nella terra di Virgilio e trapiantato a Brooklyn, ha già pubblicato diversi testi su cose americane e non, tra cui, con Marsilio, “La febbre di Trump” (2016). L’anno scorso, per lo stesso editore, è uscito “Il secolo greve. Alle origini del nuovo disordine mondiale”. A presentarlo con lui il 5 marzo in città ci saranno il vescovo Massimo Camisasca, il vicedirettore di La Verità Martino Cervo e due giovani dottori in legge, Giovanni Ferrari e Silvio Vinceti.

Mattia Ferraresi, nell’ultimo libro, “Il secolo greve”, scrivi che in America la crisi non c’è ma si sente. Sarebbe a dire?
Che c’è un errore di prospettiva. Tendiamo a misurare lo stato di salute di una società e delle nazioni attraverso alcuni indici quantitativi importanti – come il Pil o il tasso di disoccupazione – che riteniamo molto affidabili ma non sono esaustivi. Hanno due difetti: sono monodimensionali, perciò ci fanno un affresco necessariamente piatto, e guardano tutto da un punto di osservazione altissimo, che non può tenere conto dell’unicità delle situazioni.

Ad esempio?
In America, nei servizi da due minuti dei tg, ci raccontano di una ripresa economica fantastica, con il ritorno ai livelli pre-crisi… Ma in questo grande Paese, dopo sei mesi che una persona non ha un’occupazione, semplicemente scompare dai conti statistici sulla forza lavoro. Il tasso di disoccupazione non ci racconta pertanto delle persone senza lavoro da più di sei mesi, o che non si propongono più sul mercato perché disperano di trovarne uno…

È una questione di profondità…
Sì, ci si deve calare dentro la realtà, di puntare un microscopio anziché un grandangolo, e allora nelle crepe di questo divario troviamo altro, rispetto al racconto dei dati economici: disperazione, crisi esistenziale, oppiacei, assenza di significato, disoccupazione cronica…

È per queste ragioni che, nella società post-liberale, assistiamo ai nazionalismi di ritorno e vanno forte i populismi e il mito dello strongman?
Questi fenomeni e i vari movimenti antisistema che attraversano l’Occidente, e non solo, a mio avviso sono reazioni alla visione liberale in stato di crisi. Lo stesso Trump è un sintomo di una reazione di disagio che, spesso, si ferma al grido.

Scrivi anche che l’uomo contemporaneo, atomizzato, non sa più rispondere alla domanda “chi sono?”. Il tema dell’identità sta tornando in auge? E la spiritualità?
L’identità è parola ambigua, non facile da maneggiare oggi. Per me significa tutto ciò che può rivelare all’uomo ciò che è o tutto ciò per cui vale la pena vivere, impegnarsi, fare una famiglia… In questo momento la ricerca è confusa e anche spaventosa, esiste un potenziale di rischio per l’umanità… Però credo anche che nelle crepe che si stanno aprendo possa entrare un po’ di luce, e non è detto che non vi sia un ritorno a risposte trascendenti che avevamo dimenticato perché pareva che si potesse vivere facendone a meno. Può sembrare un paradosso, ma oserei dire che questa fase storica – pur nella condizione drammatica in cui viviamo – sia un momento privilegiato per riscoprire lo spirito.

Continua a leggere l’intervista di Edoardo Tincani a Mattia Ferraresi su La Libertà del 28 febbraio

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