Il barbiere-pittore di Lentigione

Sergio Bianchi Ballano: è una vita che non va in ferie…

Percorrendo le strade della nostra Bassa, a volte verrebbe da chiedersi come in questa pianura, liscia che pare un biliardo, possa nascere qualcosa di diverso che non siano dei campi di frumentone o messi a riposare a maggese, lunghi filari di pioppi o di viti nascosti dalle nebbie in inverno, o distese d’erba o di grano separate da lunghi canali di bonifica. Invece dal sole “che picchia martellate sulla testa della gente”, per citare Giovannino Guareschi nell’inizio della storia fra don Camillo e Peppone, a volte vengono fuori dei bernoccoli da artista. Qualche nome per esempio: Lelio Orsi da Novellara, Marcello Nizzoli, che da Boretto se ne va a Ivrea per disegnare la mitica Olivetti Lettera 22, Antonio Ligabue che, nato a Zurigo, trascorre tutta la sua vita a Gualtieri, come pure l’altro pittore Arnaldo Bartoli che, nato a Reggio, finisce per stabilirsi a Guastalla; e non bisogna dimenticare Cesare Zavattini con la sua Luzzara. L’elenco continuerebbe, ma mi fermo qui perché una di quelle martellate, una buona da artista s’intende, deve essere capitata sulla testa di Sergio Bianchi Ballano, il barbiere di Lentigione.

Sergio nasce il 15 dicembre 1934 nel paese appoggiato all’argine dell’Enza, proprio quell’argine che, lo scorso anno, pochi giorni prima del suo compleanno, si è rotto mandando sott’acqua tutta Lentigione, compresa la sua casa-bottega. Bottega perché il nostro personaggio, dopo aver finito le scuole elementari, aveva deciso che lo studio non facesse per lui e, nonostante il parere della sua maestra, aveva pensato che di libri ne aveva abbastanza ed era ora di cominciare a lavorare. Iniziò come garzone dal barbiere del paese e ci si mise di buzzo buono, tanto che uno dei clienti, di quelli che avevano la barba dura come il ferro, disse che la sua mano era talmente delicata che il suo mento, d’ora in poi, lo avrebbe toccato solo lui, lasciando di stucco il titolare del negozio.

Continua a leggere l’intero articolo di Giuseppe Maria Codazzi su La Libertà del 7 febbraio

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