Per farsi terra e paese

Forse da ragazzi un po’ tutti, come il trovatello de “La luna e i falò” di Cesare Pavese, ci siamo ritrovati a chiudere gli occhi per provare se, riaprendoli, la collina fosse scomparsa, lasciando intravedere un paese migliore.
Al desiderio di “andare più lontano”, la cultura digitale ha dato un contributo decisivo. L’individuo ha davvero “scollinato”, ha trovato l’America, un mondo seducente di immagini, news e commenti, che consente di trasferire sulla pubblica piazza anche i momenti più personali.
L’ebbrezza della velocità, in macchina come nella vita, presenta rischi pesanti. Si può arrivare a pensare che tutti i contenuti siano uguali, che tra rappresentazione e realtà non corra chissà quale distinzione, che le proprie credenze contino più dei fatti e che, comunque, ci si possa sottrarre a tutto ciò che è dissonante.
Su questo sfondo si rafforzano facilmente pregiudizi e stereotipi, sospetti e chiusure. Diventa difficile anche riconoscere le fake news, le informazioni infondate, “basate su dati inesistenti o distorti”, eppure così plausibili ed efficaci nella loro capacità di presa e tenuta.

Ha ragione chi sottolinea come il fenomeno non sia nuovo. In realtà, a renderlo preoccupante oggi è il numero di contatti che raggiunge in maniera tempestiva e poco arginabile. Se i social non possono essere considerati la causa principale delle fake news, like e condivisioni ne facilitano la propagazione, secondo un dinamismo che dei contenuti premia più la visibilità della loro stessa veridicità.

Leggi tutto l’articolo di Ivan Maffeis, direttore Ufficio nazionale Comunicazioni sociali e sottosegretario della Cei, su La Libertà del 31 gennaio

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