Sproporzione

Ne Il Silmarillion, antefatto de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli, Tolkien narra del valoroso Beren e della bella principessa Lúthien. Segnata dal travaglio di lunghe separazioni e da sacrifici personali, la loro storia d’amore porta con sé fin dall’inizio il peso della loro appartenenza a due mondi diversi. Il destino di morte che grava su di lui, uomo di nobile stirpe, non appartiene a lei, elfa immortale. Beren muore dopo aver onorato la promessa fatta al padre di Lúthien per averla in sposa: recuperare uno dei Silmaril, potentissime gemme magiche, dalla corona del signore del male Morgoth. Con la dolcezza del suo canto Lúthien persuade Mandos, custode della morte, a concederle una seconda possibilità di vivere nella Terra di Mezzo con l’amato. Beren viene così restituito alla vita, pur restando un mortale: destinato, prima o poi, a spegnersi per sempre. Anche la principessa elfica dovrà rinunciare all’immortalità, accettando consapevolmente di sopravvivere al marito solo per attendere di morire a propria volta. Ne Il Signore degli Anelli la triste vicenda è rievocata da Aragorn (discendente di Beren), legato da amore ad Arwen, figlia del re elfo Elrond e discendente di Lúthien. Esattamente come la sua antenata, Arwen sarà costretta a veder morire il proprio amato in attesa di seguirlo in un identico destino, avendo rinunciato all’immortalità per potergli restare accanto.

Com’è noto Tolkien riversò molto del proprio vissuto matrimoniale nelle vicende dei suoi personaggi. Innamoratosi appena sedicenne di Edith, più grande di lui e come lui orfana, per volere del tutore dovette attendere fino alla maggiore età per poterla frequentare. Tre lunghi anni, al termine dei quali i due erano ancora decisi a restare insieme nonostante l’ulteriore ostacolo della diversa appartenenza confessionale: cattolico lui, anglicana convinta lei. Fu Edith a cedere, convertendosi con poca convinzione al cattolicesimo per poter sposare John. La loro vita matrimoniale avrebbe fatto conoscere loro momenti di autentica felicità frammista a profonde asprezze, tenera delicatezza e brucianti incomprensioni, rinunce per amore dell’altro e recriminazioni. Un’incolmabile distanza a separarli fino alla fine, direttamente proporzionale alle vette della più profonda unione: tanto che sulle loro lapidi lo scrittore volle incisi, accanto ai nomi di battesimo, anche quelli di Beren e Lúthien.

Tolkien aveva compreso nella carne viva del suo matrimonio che la persona a cui consegniamo il cuore ha il potere di straziarlo – con gesti eclatanti, o con il grigiore di un’insensibile scontatezza che improvvisamente assume i tratti di una dolorosa distanza reciproca. Egli stesso lo ammetteva in una lettera del 1941, indirizzata al figlio Michael: «la caratteristica di un mondo corrotto [come il nostro] è che il meglio non si può ottenere attraverso il puro godimento, o quella che è chiamata la realizzazione di sé […]; ma attraverso la rinuncia, la sofferenza. […] [L]a battaglia resta». Quando la potenza dell’innamoramento si è offuscata, i più «pensano di aver fatto un errore e di dover ancora trovare la vera anima gemella. […] Qualcuno che forse davvero avrebbero fatto meglio a sposare, “se solo…”. […] E naturalmente di solito hanno ragione: avevano fatto un errore. Solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non siano che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)». È impossibile, afferma Tolkien, vivere l’immediatezza della gioia disgiunta dalla fatica dello stillicidio e del sacrificio.

In questo senso la vicenda di Beren e  Lúthien dà corpo a un’esperienza che non è solo degli sposi, ma di ciascuno. È l’improvvisa percezione della misteriosa e lacerante solitudine cui ogni uomo o donna va incontro, paradossalmente, proprio nell’approfondirsi della sua risposta alla chiamata della vita; la scoperta dell’impossibilità di conseguire un definitivo appagamento, pur nella fedeltà a una vocazione consapevolmente accolta e alla quale si è sacrificato tanto. Non si tratta semplicemente dell’inevitabile affievolirsi dello slancio di desiderio che ogni chiamata, ogni amore, ogni grande impresa conosce all’inizio. Curiosamente questo scacco fa parte del desiderio stesso.

Di questa sproporzione radicale si era reso conto Lewis, di Tolkien amico e lettore. La bellezza intuita e percepita ci risveglia, ci mostra l’infinito: ci spinge a scommettere la vita, quasi potessimo afferrarlo una volta per tutte. Quasi che quella persona, quell’attività, quell’amicizia, quella particolare condizione potesse liberarci definitivamente dalla ferita della nostra incompiutezza. Ma arriva presto il momento in cui siamo costretti a riconoscere che eros, questo prorompere del desiderio, tende a fare promesse che non può mantenere: «dopo averci fatto intravedere di che cosa sia capace, [eros] ha “esaurito il suo compito”. Esso, come un padrino, pronuncia i voti: ma siamo noi che dobbiamo poi mantenerli; siamo noi che dobbiamo faticare per far sì che la nostra vita di tutti i giorni arrivi a essere sempre più conforme a ciò che abbiamo intravisto» (I quattro amori).

È proprio così, ed è il mistero del nostro essere. Le persone, le relazioni, le opere a cui consegniamo noi stessi  – e che sembrano promettere il Paradiso – non ci risparmiano la ferita della solitudine e il peso del nostro limite. La felicità che ci offrono si lascia trovare solo attraverso le punture di spillo delle frustrazioni piccole e grandi che ci inchiodano a giornate difficili; la promessa di letizia, che l’adesione a una vocazione offre, pretende di convivere con la logorante consapevolezza che nessuno – nemmeno la persona più cara, nemmeno con tutte le forze – potrà veramente conoscerci fino in fondo, comprenderci, capirci. Che niente sulla terra potrà mai realizzarci davvero. Come se tutto nella  nostra esistenza – persino quanto abbiamo di più prezioso – ci dicesse che nulla basta, che la strada della nostra realizzazione sarà a prezzo del nostro sangue, fino all’ultimo istante. Che in noi c’è una ferita in grado di aprirci a un orizzonte più ampio delle nostre capacità, delle nostre virtù e dei nostri stessi sogni di felicità. Che la nostra vita è un’attesa: attesa di ricevere il nostro vero volto dal Mistero stesso che ci ha generati.

É questo, forse, il senso del grido con cui Arwen reagisce alla morte di Aragorn. Destinata da quel momento al grigiore di un’esistenza solitaria (gli Elfi, la sua stirpe, la sua famiglia hanno ormai abbandonato la Terra di Mezzo) in attesa della fine, è col nome elfico dell’amato che gli rivolge l’ultimo saluto: Estel, “Speranza”.

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