Disturbi dell’informazione: cure e anticorpi

Il tema delle fake news negli ultimi dodici mesi è decollato nell’interesse dell’opinione pubblica, come dimostra il grafico sotto tratto da Google Trends relativo alle ricerche della chiave “fake news” da parte degli utenti sul motore Google a livello mondiale.

Si noti il picco registrato a gennaio, in concomitanza con l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, che di questo termine ha fatto largo e improprio uso: ogni notizia a lui sgradita diventava infatti fake ed evil (maligna) nei suoi famigerati tweet, indipendentemente dalla fondatezza reale o meno.

L’andamento relativo al nostro Paese è simile, come indica il grafico qui sotto (ricordiamo che Google Trends non fornisce valori assoluto, ma indicizzati in scala 100).

Anche il Italia il 2017 è stato quindi l’anno dell’esplosione del dibattito sulle cosiddette bufale, ma è interessante rilevare come il trend dopo i picchi primaverili – certamente collegati alle controversie sui vaccini obbligatori per i bambini – sia tornato ultimamente in crescita.

In effetti oggi basta gettare lo sguardo su un qualsiasi mezzo di informazione, tradizionale o digitale, per averne la riprova: di fake news si scrive e si parla in ogni dove e in ogni modo ed è difficile orientarsi, anche per quelli che possiamo definire addetti ai lavori, cioè i giornalisti.

Ricordo con piacere una rubrica settimanale dal titolo “Le notizie che non lo erano” curata da Luca Sofri sull’edizione cartacea della Gazzetta dello Sport già dai primi anni ’10 (intesi come 2010), quando quello delle bufale da smascherare era un topic di nicchia: in quel piccolo spazio in coda al giornale rosa ogni sabato mattina si metteva alla berlina la leggerezza – se non proprio l’imprecisione – in cui sovente testate anche di prestigio erano solite incappare.

Un esempio eclatante fra mille? Le presunte uscite notturne dalle mura del Vaticano a fini caritatevoli di Francesco, appena eletto al soglio pontificio, smentite ufficialmente dalla Santa Sede ma riportate come certe da molti media e tuttora presenti negli archivi indicizzati sui motori di ricerca online.

Nella suddetta rubrica l’indice era rivolto alla corresponsabilità da parte degli operatori professionali dell’informazione, l’imputato principale non era quindi necessariamente il sottobosco della Rete, la cui pesante influenza era tuttavia già spesso chiamata in causa dall’autore.

Ecco, questo anche a mio modestissimo avviso è un fattore determinante da tenere presente nel dibattito generale: quanto cioè il “sistema” dei media ufficiali sia in grado di contribuire al contenimento (debunking) del fenomeno certamente deplorevole delle fake news.

In proposito segnalo una ricerca commissionata dal Consiglio d’Europa alla no profit First Draft (che si occupa di etica e accuratezza nel giornalismo) e prodotta da Claire Wardle, dedicata appunto ai disturbi dell’informazione (Information disorder). Sono un centinaio di pagine che si possono scaricare e con un po’ di pazienza approfondire, il succo lo trovate condensato in questo post sempre di Luca Sofri da cui estraggo e rilancio un solo spunto (rimandando magari il resto ad altre occasioni qui negli Orti Digitali): ci si deve impegnare nel fact checking (verifica dei fatti) per smascherare una bufala pericolosa o è meglio adottare un silenzio strategico, per evitare che i fabbricatori del letame informativo conseguano il loro obiettivo, cioè che gli afrori delle loro notizie adulterate si spargano il più possibile con la complicità, spesso inconsapevole, di molti?

Il nodo è ovviamente intricatissimo, ma questa è una battaglia di civiltà e credo che valga la pena combatterla, a prescindere dai metodi.

Intanto solo pochi giorni fa è stata presentata in pompa magna la campagna  #Bastabufale, parte di un più ampio pacchetto di azioni che il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sta mettendo in campo per la prima volta sul tema del controllo delle fonti e per l’educazione civica digitale, in collaborazione con la Rai, la Federazione degli editori (Fieg), Confindustria e gli stessi big player dell’industria digitale, come Facebook e Google.

 

Il target dell’iniziativa sono soprattutto i giovani delle scuole, per loro è stato principalmente concepito il decalogo (sopra) simbolo della campagna, che anche io ho spontaneamente salutato come meritoria e lodevole. Poi però mi sono imbattuto in questo notevole contributo di Nereo Sciutto un po’ fuori dal coro che vi raccomando e con cui (per ora) chiudo: a l’attenzione ai minori e le forme di prevenzione sui pericoli delle fake news sono sacrosante, ma forse i nostri ragazzi hanno già sviluppato gli anticorpi a questi disturbi dell’informazione, di cui noi adulti non siamo dotati perché certe malattie non c’erano quando siamo cresciuti. E siamo quindi solo noi grandi che perseveriamo ad ad azzuffarci sguazzando nella brodaglia delle bufale.

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