«Dio ha fatto meraviglie attraverso la mia fragilità»
A Bibbiano la festa è preparata per domenica: Messa solenne alle 11, pranzo all’Istituto Maria Ausiliatrice e poi altri tributi da uno stuolo di amici che vanno dal movimento di Comunione e Liberazione alla dozzina di parrocchie servite in questo mezzo secolo, estendendosi a tanti Paesi del mondo, là dove operano i confratelli di Legionari di Cristo, “Mater Ecclesiae” e Urbaniana ospitati e accompagnati al sacerdozio in oltre vent’anni, dalla Cina all’America Latina, dalla Nigeria al Pakistan. La missione è insita nel Dna di don Romano Vescovi, che l’11 giugno 1967 riceveva l’ordinazione sacerdotale dalle mani di monsignor Gilberto Baroni, in Cattedrale a Reggio.
Il libretto predisposto per questo giubileo, curiosamente, assembla due piccoli diari, uno kenyano e uno di Terra Santa, con testi e foto: “Sono come un segno e una semplice testimonianza del mio pellegrinaggio umano-sacerdotale”, dice il don.
Non fosse per i capelli grigi, gli si darebbe un’età giovanile. Impressione confermata da don Romano stesso, secondo questa autodefinizione: “Dopo 50 anni, è come il primo giorno, pieno di attesa: curioso, stupito come un bambino, desideroso come un giovane innamorato, certo come uno che ha visto e sperimentato un’amicizia come quella di Dio, grato come un mendicante a cui è stato dato con amore più di ciò che ha chiesto”.
Nell’ultima pagina del libretto, sono riportate in foto le facciate delle chiese in cui don Romano si è spostato nel suo ministero presbiterale, da prete impulsivo di carattere ma profondamente obbediente qual è, libero e lieto nel servizio. È un po’ la mappa che guida la nostra intervista.
Don Romano, favorisca le generalità…
Sono nato a Neviano degli Arduini, in provincia di Parma, da Battista Vescovi e Maria Chierici. Ho una sorella, parrucchiera oggi in pensione, e due fratelli: uno gestisce un bar-pasticceria a Reggio, l’altro ha fatto il calciatore, abita a Frosinone.
È a Neviano che è nata la sua vocazione sacerdotale?
D’estate a Neviano rientravano a casa vari seminaristi del posto e ricordo che facevano giocare noi bambini, era una specie di grest di quei tempi; lì è sbocciata l’idea. Va detto anche che mia nonna Carla, che voleva essere chiamata mamma, sperava che uno dei suoi figli diventasse prete, poi ha riversato questa preghiera sui nipoti; mi aveva a cuore in modo particolare. Ancor prima che nascessi, i miei genitori hanno consacrato la mia vita alla Madonna di Fontanellato…
Poi il trasloco nel Reggiano…
Dopo 7 anni a Neviano, la famiglia si è trasferita a Rivalta e in seguito a Coviolo; intanto a dodici anni sono entrato in Seminario, nel 1953. Successivamente i miei sono tornati nel territorio di Parma, a Castione de’ Baratti. Terminato il ginnasio a Marola, ho completato il percorso per il sacerdozio a Reggio e ho celebrato la prima Messa a Rivalta.
Com’era la vita in Seminario?
Regolare, esigente, molto formativa. Forse un po’ troppo distante dal mondo. Tant’è che quando sono diventato prete ero come spiazzato e sono andato presto in crisi.
Crisi?
Il primo incarico, nel 1967-68, è stato come vicario cooperatore in Cattedrale. Io, giovanissimo e molto vivace, accoglievo tanti giovani, con cui si giocava, ballava, cantava. Però vedevo che a Messa venivano in pochi. E io mi domandavo cosa fosse il mio sacerdozio, dato che avevo successo solo come dj. Ero deluso di me stesso e avevo deciso di andare dal vescovo per smettere il mio ministero.
Continua a leggere tutta l’intervista di Edoardo Tincani a don Romano su La Libertà del 10 giugno