Quale «presbitero» per le unità pastorali?

Essere pastori di una o più parrocchie fa la differenza

La ristrutturazione delle parrocchie in unità pastorali chiama in causa non solo l’aspetto territoriale, le tradizioni di ogni singola comunità cristiana, gli stessi fedeli che a volte si sentono disorientati, ma anche lo stesso presbitero e il suo ministero pastorale. Abituato ad accompagnare, guidare, animare una sola parrocchia, ora il presbitero si trova ad essere pastore di più parrocchie, ciascuna con la sua storia, con diversa impostazione di vita religiosa, con differente collocazione sociale, geografica e numerica. Ha davanti a sé una tipologia non omogenea.
La tradizionale struttura parrocchiale, poi, continua ad avanzare le sue pretese e non solo sul piano delle celebrazioni o iniziative, ma anche nell’ambito amministrativo ed economico. Istanze alle quali il presbitero, spesso, deve dedicare molto del suo tempo; impegni, richieste, riunioni… che domandano competenze, puntualità, conoscenze di vari sistemi eccetera. Niente di straordinario se si sente sovraccaricato di ruoli non sempre di sua competenza e che invece di diventare più leggeri si fanno sempre più pesanti. La tentazione di gestire la nuova realtà pastorale con lo schema precedente è molto presente. È comprensibile, allora, che il presbitero provi un certo disagio, affanno, il non sapere come muoversi nel proprio ministero.

Porsi la domanda circa un ridimensionamento, una riduzione, un accorpamento, il dare delle deleghe riconosciute, riportare la guida della comunità cristiana a ciò che le è di stretta pertinenza, rinunciando a tutto quanto lungo la storia l’ha sovraccaricata, non è fuori luogo anche perché, secondo alcuni studiosi di storia della parrocchia, la struttura tradizionale con la sua identità tra parrocchia e comune, chiesa e beneficio, diocesi e provincia, patrimonio artistico e strutture cultuali, assistenza e servizi di sussidiarietà, eccetera… sarebbe un’ultima espressione della “figura costantiniana” della Chiesa e del rapporto sempre problematico tra Chiesa e società. Ci si chiede: è proprio questo, oggi, il modo di essere “Chiesa tra le case”?
Inoltre il presbitero si rende sempre più conto di quanto sia difficile proporre un itinerario comune di fede quando la mobilità delle persone lo induce a tenere presente sia il luogo residenziale dove i fedeli abitano sia lo spazio vitale dove le persone lavorano, vivono il tempo libero, si coltivano le amicizie, caso mai mentre fanno shopping.

Leggi tutto l’articolo di Giancarlo Gozzi su La Libertà del 3 giugno

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