Non tutti i cookie vengono per nuocere

Data is the new oil. I dati sono il nuovo petrolio, non solo dell’industria digitale, ma in fondo di tutto il sistema economico, oggi al centro di una profonda trasformazione sospinta proprio da questo nuovo carburante intangibile.

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Come il petrolio i dati degli utenti sono pregiati e altamente ambiti, per ottenerli e sfruttarli bisogna essere abili e saper investire.

La metafora, se ci pensate, è molto appropriata. Pensate, ad esempio, ai soliti Google e Facebook, che qualche anno fa hanno iniziato a fornirci servizi utili e allettanti (come la posta elettronica, gli spazi di archiviazione su cloud, la messaggistica istantanea e il… libero cazzeggio social) in modo gratuito, ma solo apparentemente: a loro non interessano i nostri euro, ma le informazioni sui nostri gusti, comportamenti e desideri, da rielaborare e utilizzare per scopi commerciali.

Ma come? E la privacy? Tutto sotto controllo, i giganti dell’industria digitale formalmente si sono sempre mossi al di qua della soglia della legalità, sebbene lo squilibrio di tale situazione abbia indotto recentemente il Legislatore ad intervenire sui meccanismi del consenso all’uso dei dati personali che si verifica online.

Navigando sulla maggior parte dei siti negli ultimi mesi, infatti, vi sarete di certo accorti di quei messaggi contenenti la richiesta del vostro benestare all’accettazione dei cookies: letteralmente (dall’inglese) biscotti, di fatto piccoli pezzi di codice che servono a tracciare la nostra navigazione e ad apporre una sorta di etichetta sugli utenti.

Le tracce che lasciamo in rete mentre surfiamo sono infatti tante e preziose e vanno a popolare i contenitori di dati che gli algoritmi dei sistemi di CRM delle aziende (Customer Relationship Management, gestione della relazione con i clienti) o dell’industria pubblicitaria digitale in qualche modo utilizzeranno a vantaggio proprio o anche degli stessi utenti.

Tra gli effetti più impattanti c’è il cosiddetto remarketing (o retargeting): ho visitato, ad esempio, il negozio on line di una azienda di abbigliamento e dopo pochissimo tempo, mentre leggo il mio quotidiano online preferito, mi ritrovo sullo schermo i banner pubblicitari di questa stessa azienda e magari la foto dello stesso prodotto che mi piace e che avevo cliccato.

Il tema, come è evidente, è delicato e complesso e queste mie poche righe non intendono certo affrontarlo di petto. Di base mi piace pensare che anche questo scenario non vada demonizzato a prescindere, come spesso avviene per le innovazioni che ci spaventano.

I vantaggi ci possono essere anche per il consumatore digitale, l’importante è che sia correttamente informato e tutelato e a lui poi dovrebbe spettare una scelta libera e consapevole. Purtroppo così non avviene, la stessa legge sulla cookie policy, a quasi due anni dall’introduzione, non ha ancora trovato piena applicazione.

E così, mentre negli USA le potenti lobby stanno spingendo per rendere ancora più libera la caccia ai dati personali, c’è qualcuno che avuto la brillante idea di fare beneficenza con gli stessi.

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“Stanco che le grandi aziende facciano profitto con i tuoi dati? Tu usali per fare del bene!”. È la mission di Data does good, una startup americana che vende esplicitamente a terze parti i dati di navigazione dell’utente, ma in cambio offre un controvalore economico con cui effettuare una donazione a fondazioni o enti impegnati in progetti di charity.

Dai, non tutti i cookie vengono per nuocere.

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