Sulla soglia

Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi»” (Mc 14, 12-15). Da questo passaggio del Vangelo di Marco ha inizio il racconto Piccolo Abi di Elena Bono, che ci proietta nella prospettiva di Giovanni e Tommaso (non Giovanni e Pietro, come invece riportato dal Vangelo di Luca).

I due incontrano effettivamente un anziano omino impegnato a trasportare un secchio d’acqua. Tommaso è dubbioso; Giovanni invece, convinto che sia quello l’uomo di cui ha parlato il Maestro, lo segue fino a casa e gli riferisce la richiesta di Gesù. Con sua sorpresa il vecchio, commosso ed entusiasta, gli assicura che “«Tutto è pronto da tempo per il Signore. Se l’ho aspettato! Tu non sai… nessuno lo sa… oh Signore! Tu sei di quei suoi amici, che gli andate sempre assieme, è vero? […] E il mio Signore come sta? Sta bene? Sempre così grande e bello? Ah, non ce n’è come lui, figliolo. […] E di me cosa t’ha detto? V’avrà parlato di Abi chissà quante volte. Eh, che diceva? […] Avanti, avanti, vieni a vedere. Tutto è pronto… lo sapevo io che tornava. Eppure non pare vero. Gloria dei cieli! Un giorno così ripaga tutto… tutto, figliolo. Adesso posso pure morire»”. Egli mostra a Giovanni una stanza già pronta per la cena, con otri di vino buono a riposare in un angolo, pane azzimo, una magnifica coppa d’oro per il Signore. L’ometto parla di sé: Abimelec è il suo nome, “Abi” il soprannome coniato da sua madre; e “piccolo Abi” lo chiamava il suo Signore: un Signore che il vecchino ha visto crescere e che, quando è partito, gli ha chiesto di aspettarlo. Da allora Abi tiene pronta la casa, specialmente a Pasqua, vegliando talvolta per l’intera notte: perché sa che il suo padrone tornerà.

Giovanni inizia a sospettare che ci sia un equivoco: gliene dà conferma Tommaso, sopraggiunto dopo essersi informato presso le comari del villaggio. Abi era il fattore della tenuta; il suo padrone,copertina_piccolo_abi-Pagina001-722x1024  figlio dei vecchi proprietari, era un giovane buono e generoso, sempre circondato da amici: nel corso di un viaggio in terra lontana, ormai molti anni addietro, era morto improvvisamente. Non se ne conosceva nemmeno il luogo di sepoltura. Abi non ne aveva mai accettato la morte e aveva continuato ad attenderlo tra lo scherno della gente: un “vecchio ammattito”, solo e ridotto in miseria, “che a ogni Pasqua mette a tavola e aspetta che il padrone ci si venga a sedere”.

Tommaso a questo punto vorrebbe andarsene, trovare “il cenacolo giusto”; Giovanni invece vuole rimanere: è quello il posto giusto, e poco importa che non sia stato preparato per il “loro” Signore. “«Di tutte le cose, Tommaso, il Signore nostro può dire ‘É mia questa cosa’. In tutti i cenacoli, in tutti i banchetti del mondo, anche se non l’hanno invitato e nessuno l’aspetta, lui può venire e sedersi e dire: ‘Questo è il mio posto, questa è la mia coppa, dove io bevo’. E beati quelli da cui il Signore arriva così, senza che loro se l’aspettino e tutt’a un tratto se lo vedono in mezzo a loro”.

A questo punto i due notano Abi in disparte, alle prese col suo agnellino: gli parla teneramente, mentre se lo prende in spalla e sparisce lungo il declivio, verso il Tempio. Quando torna poco dopo, non ha più la bestiola con sé e piange disperato. “Giovanni si chinò su di lui. «Dov’è l’agnelletto, Abi? Dillo a me. Te l’hanno portato via?»”. Il vecchio spiega: aveva trovato quell’agnellino tempo prima nella vigna, appena nato; gli aveva fatto “da madre e da pastore”, gli parlava, lo nutriva, lo teneva al caldo, lo difendeva dai monelli e dalle loro sassate. “«Era solo lui che ci avevo… solo lui. Eh, per un agnelletto, mi dirai, sei stupido, Abi. Pure io lo dico… ma anche se era solo un agnelletto, era l’unico che stava con me… e dopo… mi pareva anche… sono stupido, dirai… ma mi pareva che somigliasse ai miei piccoletti… ai miei figliolini che mi sono morti tutti che appena cominciavano a camminare… e l’ultimo non è nemmeno nato, se n’è andato via con sua madre, senza che neppure gli potessi dire: ‘Figlio mio, come mi sei venuto, così ti ridò indietro al Signore Iddio. E viva sempre il Signore’». Gli apostoli comprendono che Abi ha fatto macellare il suo amato agnellino per poter preparare la cena di Pasqua per il Signore: ha sacrificato ciò che aveva di più caro.

Forse molti di noi reagirebbero come Tommaso nei confronti di Abi: un misto di diffidenza e compassione per un cuore rimasto buono e fedele nonostante tante prove, ma chiuso in un’inconsapevole solitudine; vecchio di ottantaquattro primavere e indifeso come un bambino.

È però l’impeto di Giovanni a trascinarci, intenerito e assieme riverente e rispettoso, consapevole di una misteriosa solidarietà che lo lega ad Abi. Lo stesso giovane apostolo ci lascia intuire il perché, quando – di fronte alle ansie di Tommaso, che vorrebbe che tutto fosse perfetto per il Maestro – afferma che “Tutto è sempre poco, tutto è sempre sbagliato di quel che possiamo fare per Lui. E io voglio essere anche meno di quel che sono… non voglio essere niente. Voglio essere un bicchiere vuoto come quello, Tommaso, così lui mi riempie»”. Proprio qui il dramma del piccolo Abi incontra quello di Giovanni, degli apostoli, di ogni uomo: il grido che sale dalle nostre viscere, dal vuoto che vorremmo tacitare. Nella sua attesa all’apparenza vana per un signore che non può tornare, Abi lascia affiorare la nostalgia di ogni essere umano; nostalgia invincibile di Uno che possa a buon diritto venirci incontro dicendo “tu mi appartieni, io sono il tuo Signore: lascia che io ti ami, perché tu sei mio”.

E proprio il Signore di ogni cosa, nel finale del racconto, colma questa attesa: la soglia di quella casa, sulla quale così a lungo Abi ha vegliato, è improvvisamente abitata da una vertiginosa Presenza che riconosce quel misero uomo come l’amico più caro. L’abisso della Gloria, che nessuno può contemplare, si manifesta nella familiarità di un Volto umano, nella tenerezza di uno sguardo che investendo Abi si riverbera su ciascuno di noi. Così nelle splendide parole di Elena Bono: “«Eccolo, eccolo», gridarono a un tratto i bambini, lasciandosi scivolar giù dalla finestra e correndo via per il pergolato. Il vecchio s’alzò tutto pallido e tremante, prese a sciogliersi il grembiule, ma le mani non riuscivano a districare il semplice nodo. Giovanni cercò di aiutarlo, ma anche le sue dita erano incerte e il vecchio non stava fermo, voleva sciogliere lui, fare in fretta. «Oh Signore, oh Signore», balbettava. «Gloria dei cieli… aprite, aprite la porta al Signore… troverà chiusa la porta… la porta di casa sua». Sciolto il grembiule, fece per correre, gli mancarono le gambe, dovette sedersi. «Aprite… Girate l’agnello… oh Dio…». «Calma», disse Tommaso, «calma», con la voce che gli tremava; intanto non sapeva che fare e stava dritto in mezzo alla stanza. Giovanni si slanciò alla porta. «Giro io l’agnello», disse Tommaso, «a Dio piacendo». Il vecchio fu di nuovo in piedi, raggiunse col suo passetto Giovanni presso la porta spalancata, Giovanni che stava immobile accanto allo stipite. Inciampando il vecchio montò lo scalino. Veniva verso la casa una piccola folla: avanti i bambini, camminando all’indietro, dalle parti le donne con i lattanti in braccio. Giovanni riconobbe nel mezzo, fra gli uomini, la veste del Maestro e si coprì gli occhi. E il Maestro fu sulla soglia. Il vecchio gli afferrò la mano piangendo dirottamente. «Ah, Signore… sei tornato», singhiozzò, «sei tornato… Non andare più via… Non andartene più». Pianamente il Maestro ritirò la sua mano e gliela pose sul capo”.

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