Eugene and Jack

“Lo stomaco non mi perdonerà mai le schifezze che l’ho costretto a ingurgitare da quando sono qui e l’anima non perdonerà la devastante disperazione di cui son stato testimone… Sono sfinito, sconvolto, ho i nervi a pezzi per ciò che ho visto, per le sofferenze che questi spettacoli mi hanno causato… Sono nauseato di quest’umana voragine infernale che ha nome East End.” Questo scrive Jack London all’amica Anna Strunsky nell’estate del 1902.

Lo scrittore ha 26 anni, il pubblico comincia ad apprezzare la sua anima avventurosa e ribelle, socialista lo accuseranno in tanti, ma un’anima che vive nell’assoluto bisogno di essere dentro alle realtà da raccontare. Il 30 luglio del 1902 sale a bordo della nave Majestic alla volta di Londra, deciso a raccogliere materiale su quell’immenso agglomerato di povertà che ha nome East End, lo slum che sorge alla periferia nord-est della città. Raccogliere materiale vuol dire per lui vedere e provare, dicevamo, e infatti si traveste da clochard e vive come tale per 84 gironi, mescolando in tutto e per tutto la sua esistenza con quella delle centinaia di migliaia di persone che popolano quell’abisso infernale.

Perché vi racconto questa storia, vi starete chiedendo, il motivo sta nel fatto che il nostro Jack porta con sé una Kodak con cui scatta una serie di straordinarie fotografie, che andranno a corredo della prima edizione del libro Il popolo dell’abisso, che vede la luce, per i tipi di Macmillan, nel 1903; in italiano ne esiste una bellissima edizione di Mondadori. Di London tutti conoscono ‘Zanna bianca’ o ‘Il richiamo della foresta’ e per i più attenti lettori il quasi autobiografico ‘Martin Eden’ e tanti altri, ma lui a fine carriera ebbe a dire: “Di tutti i miei libri, quello che amo di più è ‘Il popolo dell’abisso’. Nessun altro mio lavoro contiene tanto del mio cuore e delle mie lacrime giovanili quanto quello studio sulla degradazione dei poveri”.

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Uomini in fila di fronte all’Esercito della salvezza – Jack London 1902

Ora, diversi giorni fa, un giovane collega fotoreporter mi diceva che avrebbe fatto volentieri con me un viaggio per realizzare un reportage e alla mia richiesta su quale meta preferisse, non mi ha dato una risposta precisa, l’importante in fondo era andare altrove, come se l’andare altrove fosse la cosa necessaria e sufficiente per fare delle buone fotografie. La questione mi ha dato da pensare e, non vi sembri strano, sono arrivate anche delle risposte.

La prima l’ho trovata nel lavoro del nostro Stanislao Farri, che ha prodotto più di trenta libri su Reggio e Provincia, senza muovere un passo fuori dai suoi confini, eccezion fatta per un lavoro sulla vicina Parma e qualche giorno passato in gita a Nuova York.

La seconda l’ho trovata nel lavoro del nostro amico Jack, il quale, come dicevamo più sopra, decide di raccontare al mondo come si vive in certe zone della civilissima Londra. Tralascio i perché storici che stanno alla base della sua idea, quello che mi interessa è l’approccio con cui la affronta. Mi ripeto, si veste come loro, dorme e mangia con loro, soffre piange con loro e questo lo fa per 84 giorni con la macchina fotografica in tasca per documentare quello che vede e, aggiungo io, per evitare di essere smentito. Non si tratta quindi di un viaggio in un esotico altrove, ma di vivere per raccontare e non solo raccogliere immagini da far vedere.

Fece lo stesso anni dopo anche Eugene Smith con la faccenda di Minamata, ma questa è un’altra storia e, se volete, ve la racconto un’altra volta.

Eugene Smith nella sua camera oscura a Minamata - Aileen Smith 1971
Eugene Smith nella sua camera oscura a Minamata – Aileen Smith 1971

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