«Marcellino pane e vino»

Un approccio affascinante all’identità cristiana

Rivedendo il film “Marcellino pane e vino”, diretto nei primi anni Cinquanta dal regista ungherese Ladislao Vajda e tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore spagnolo José Maria Sánchez Silva, ne ho scoperto tutta la straordinaria attualità. Il merito, devo dire, è dei miei nipotini che, durante le vacanze, lo hanno eletto a “film dell’estate”. Quando chiedevo: “Che film guardiamo questa sera?”, quasi sempre rispondevano in coro: “Marcellino!”. Alla fine conoscevamo tutte le battute a memoria.
Con stupore ho visto che quest’opera, così vera nella sua umanità ma così scarna nella pellicola in bianco e nero, ha battuto nelle preferenze dei bambini anche i più blasonati, coloratissimi ed emozionanti film di animazione della Disney, pieni di effetti speciali. “Mi sembra necessario tentar di opporre a questo mondo di pugni, di spari, di torbidi intrighi, una narrazione semplice e pura”, scriveva José Maria Sánchez Silva nell’introduzione al libro. Il regista ha rispettato in pieno questo invito, con un esito affascinante.
In un tempo in cui ogni elementare evidenza, a iniziare dalla famiglia, sembra essere cancellata; in una società che si vanta con orgoglio di matrimoni e adozioni gay, “Marcellino pane e vino” racconta, con disarmante candore, la storia di un bimbo con dodici papà (i dodici frati che lo avevano accolto come trovatello dopo la nascita e lo accudivano con amore), ma che provava un’irriducibile nostalgia della mamma, che non aveva mai visto perché morta dandolo alla luce. La nostalgia della madre perduta è il filo conduttore di tutto il film.

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