Il desiderio e il promemoria

In uno dei suoi ultimi scritti, tradotto in italiano come Il disagio della civiltà (1929-1930), Freud propone un radicale aut aut. L’essere umano, sostiene il padre della psicoanalisi, consiste di pulsione e desiderio: proprio per questo è capace all’occorrenza di sottomettere gli altri e di abusarne; aggressività fratricida e violenza sono il vero volto del desiderio e la società civile sorgerebbe inibendo questa dimensione dell’uomo. La conclusione è amara: l’uomo “primordiale” era più felice perché esplicava liberamente il proprio desiderio, ma la sua vita era continuo pericolo; l’uomo civilizzato, invece, “ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”.

Sicurezza contro felicità, questa la nevrosi dell’uomo contemporaneo. Una dicotomia recentemente ripresa da Umberto Galimberti, che nel suo Le cose dell’amore (2012) la estende alla natura stessa delle relazioni umane: se l’amore vive della novità e del mistero, argomenta il filosofo, il tempo e la vita giocano contro di noi. L’iniziale idealizzazione dell’amato trapassa inevitabilmente in disincanto, disillusione, affetto privo di passione. Ci troviamo costretti a scegliere: o la rassicurazione offerta da tenerezza, intimità, profondità di relazioni; o il brivido della felicità, sempre connesso al senso dell’avventura e alla passione, al rischio del desiderio incontrollato.

In nome di questa dicotomia, come è noto, matrimoni si infrangono e relazioni si spezzano (“non c’è più passione”, “non siamo più innamorati”). Non è comunque possibile liquidare con troppa facilità questo dramma (riconosciuto come tale anche da chi lo ha teorizzato), che in realtà è il segreto timore di ciascuno: il timore che la nostra vita sia davvero, come sosteneva Schopenhauer, un eterno oscillare tra il dolore acuto della mancanza e la noia piatta della soddisfazione che non sazia il cuore. È possibile per noi essere veramente felici?

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Credo che la colpa più grave della nostra generazione adulta consista nell’aver incoraggiato i più giovani a chiudere questo dissidio, a farlo tacere il più velocemente possibile. Insegniamo loro che i grandi desideri comportano grandi disillusioni: meglio puntare a mete raggiungibili e non esporsi per evitare dispiaceri. Li spingiamo ad aspirare a realtà facilmente nominabili e identificabili, che sembrano più gestibili (mentre, al limite, possono persino ridurci schiavi: Benedetto XVI non a caso ha individuato la malattia della nostra epoca nella “dittatura dei desideri”). Oppure – ed è l’altra faccia della medaglia – li illudiamo che il compimento di tutte le nostre aspirazioni sia alla nostra portata, che esista qualcuno o qualcosa su questa terra che può spegnere per sempre la nostra sete.

In Sorpreso dalla gioia C. S. Lewis racconta che a nove anni, leggendo una poesia sulla morte del dio Balder, visse l’esperienza di un desiderio struggente e acuto: “immediatamente mi sentii trasportato nelle immense regioni dei cieli nordici, desiderai con quasi dolorosa intensità qualcosa che non potrà mai essere descritto (so solo che era freddo, spazioso, severo, pallido e remoto) e infine, come negli altri casi, mi ritrovai nel medesimo istante già lontano da quel desiderio e bramoso di riaccedervi”. Per questo motivo scriverà ne I quattro amori che eros, il desiderio, è spinto a farci promesse che non può mantenere da sé; una volta fatte le sue promesse titaniche, ha svolto il suo compito; esso pronuncia per noi voti che siamo noi stessi a dover mantenere. È la sua interna dialettica il motivo per cui a tanti esso è parso la maledizione del genere umano: ci assale con una potenza infinita e un’infinita promessa di felicità, ma il suo orizzonte sono le cose finite. Lewis invece riconosce che “tutte le immagini e le sensazioni, se idolatricamente scambiate per la gioia stessa, dovevano presto onestamente rivelarsi inadeguate. In ultima analisi, dicevano tutte: «Non sono io. Io sono solo un promemoria. Guarda! Guarda! Che cosa ti ricordo?»”. Il nostro male non è amare le cose e le persone finite, ma pretendere da esse che rispondano al nostro bisogno infinito, addebitare ad esse la nostra gioia e la nostra infelicità. Piuttosto, è questa la forza dirompente del nostro desiderio: “segnaposto di un altro”, nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai posseduto e che pure ci appartiene, struggimento per un altro – Qualcuno?- che infinitamente ci oltrepassa e che pure ha per noi il volto familiare dell’Amico.

 

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