Disegnare insieme il futuro (Forum)

Dopo il discorso del Vescovo ai giornalisti per la festa di san Francesco di Sales, pubblicato integralmente su La Libertà del 31 gennaio (pagina 3), apriamo in questa pagina un forum di approfondimento e discussione “Disegnare insieme il futuro”, nato dalle riflessioni rivolte ai giornalisti dal Vescovo.

Per partecipare si possono inviare i propri contributi (testi di 3.000 battute al massimo) all’indirizzo di posta elettronica redazione@laliberta.info

«Aiutateci a disegnare il futuro»
Le parole del Vescovo ai giornalisti: ragioni di speranza

Il valore dell’incontro che abbiamo vissuto è duplice: da un lato abbiamo iniziato un lavoro su temi che ci toccheranno sempre di più e che riguardano la conoscenza di popoli un tempo lontani ed oggi vicini a noi. Dall’altro abbiamo intrapreso la ricerca di strade che possono portarci verso il futuro. Sono temi che sempre di più desidererei affrontare con voi giornalisti, con voi uomini e donne di questa nostra Chiesa per poter dare assieme un contributo alla costruzione di ciò che verrà.

Desidero attestare la gratitudine mia e della nostra Chiesa ai giornalisti, in particolare a quelli della nostra terra reggiana, della carta stampata e dei siti web, ai fotografi e a tutti coloro che lavorano per farci conoscere ciò che accade. È un lavoro difficile, perché deve rispondere a molte istanze: ai lettori, che dovrebbero essere il punto di riferimento fondamentale della professione giornalistica, ai proprietari delle testate, ai direttori.
Voi dovete aiutare la conoscenza mettendo in rapporto fatti e lettori. Vi ringrazio per il lavoro che fate. Sono consapevole delle difficoltà che incontrate, legate alla trasformazione, in atto da parecchi anni, generata dalle nuove tecnologie. Sono partecipe della vostra battaglia e del vostro cammino verso un compito sempre più appassionante e fedele alle ragioni che l’hanno originato.
Credo ancora in un giornalismo che, anche nell’era virtuale, possa essere fedele ai fatti, che ci possa raccontare ciò che accade e aiutare a comprenderlo. Penso, anzi, che in fondo un giornalista possa essere veramente soddisfatto del proprio lavoro se vive questa fedeltà ai fatti. L’affermazione di Gesù: Solo la verità ci rende liberi (cfr. Gv 8,32) dice innanzitutto questo.

La paura del futuro
In questo momento viviamo tutti una grande incertezza riguardo al futuro. Nella maggior parte dei miei incontri trovo questa incertezza nei riguardi del domani. Non voglio entrare in un’analisi delle cause di tale insicurezza, voglio piuttosto dire alcune ragioni di speranza.
L’incertezza riguardo al futuro non è una cosa nuova nella storia dell’uomo. Se consideriamo tutte le epoche, vediamo che ci sono dei momenti particolari in cui qualcosa muore e qualcosa di nuovo nasce. Noi siamo in uno di questi momenti, stiamo vivendo il travaglio del parto, il momento del dolore e della fatica. Speriamo di poter assieme approdare ad una nuova nascita, ad una nuova sintesi, una nuova formulazione della nostra convivenza, del nostro lavoro e dei nostri affetti.
Leggendo e rileggendo sant’Agostino, in particolare La città di Dio, mi immedesimo con quelle che potevano essere le domande delle persone colte del suo tempo. Sembrava che tutto dovesse finire; sembrava che dovesse finire non solo l’Europa e il nord Africa, ma l’intero mondo allora conosciuto. Agostino ha avuto la lungimiranza e la profondità di riconoscere che non era così!
Anche noi dobbiamo vivere questa lungimiranza. Non la superficialità che porta a minimizzare i problemi, ma la capacità di disegnare, all’interno dei problemi, le linee del nostro futuro. Vorrei che questa fosse l’ottica con la quale attraversiamo il nostro presente.
Abbiamo vissuto anni di lamenti, di disperazioni, di fatiche. Il lamento non fa storia. La storia è invece costruita dall’individuazione delle strade di un nuovo disegno di civiltà e di convivenza.

Quali sono le ragioni dell’insicurezza odierna? Sono ragioni difficili da delineare. Vorrei dirne qualcuna per poi avviarmi a illustrare quali siano le strade fondamentali per costruire il futuro.
Una prima ragione di insicurezza è legata al cambiamento accelerato del nostro tempo. La globalizzazione ci fa sentire cittadini del mondo. Possiamo essere dovunque stando nella nostra casa e conoscere, o avere l’illusione di conoscere, molto di più di un tempo; possiamo anche viaggiare più facilmente. Ma tutto ciò rischia di farci sprofondare, paradossalmente, in una visone particolaristica.
L’impressione di poter “essere tutto” si capovolge nell’impressione di “poter essere nulla” e quindi nella necessità di legarci a piccole cose perché quelle grandi le abbiamo cercate e non le abbiamo trovate. Ecco l’esaltazione dei localismi e dei sentimenti brevi, che sono due aspetti diversi, ma entrambi originati da questo spaesamento: ci si rinchiude nel piccolo perché il grande, ormai, ci ha dato le vertigini e una certa insicurezza radicale.
Questo dei sentimenti brevi penso sia, fra l’altro, uno dei maggiori frutti negativi delle tecnologie e dei rapporti virtuali. Non si è più capaci di costruire qualcosa che duri perché l’abitudine al rapporto virtuale ci fa sentire come possibile soltanto la rifrazione di noi stessi. È una forma di narcisismo che ci impedisce di costruire qualcosa che travalichi oltre l’oggi.

Anche la crisi delle verità ha contribuito a dare questo senso di totale insicurezza. Paul Claudel, nella sua Scarpina di raso – un’opera teatrale paragonata da Von Balthasar alla Divina Commedia di Dante – presenta all’inizio l’immagine di un padre gesuita naufrago che riesce ad abbarbicarsi sui resti di legno della nave come, commenta Claudel, per abbarbicarsi a una croce. È abbarbicato alla croce, ma la croce da che cosa è sostenuta? Ratzinger, all’inizio della sua Introduzione al Cristianesimo, parlava di questa immagine come descrittiva del momento in cui siamo. La crisi delle verità ha portato oggi a una serie infinita di incertezze. Quelle più gravi riguardano la fondazione del diritto.
Un altro elemento di insicurezza è legato poi all’incertezza sulle forme della rappresentanza politica: assistiamo a una crisi molto forte dei partiti e dei rapporti fra gli stati.

Le strade della ripresa
Abbiamo una bussola che ci permetta di attraversare positivamente e costruttivamente il presente e ci slanci con fiducia verso il futuro? Le sintesi nuove, dal mio punto di vista cristiano, nascono come un miracolo, ma nella storia degli uomini esse hanno bisogno di decenni e di secoli per sorgere e affermarsi, non sono costruzioni di un istante. Quanti milioni di cristiani ci vogliono perché nasca un Tommaso d’Aquino? Quante decine di migliaia di cristiani ci sono stati perché potesse esserci sant’Agostino? Allo stesso modo anche le nuove sintesi hanno bisogno di lunghi anni.
Una prima bussola di orientamento può essere quella di rispondere assieme alla domanda: “chi è l’uomo?” partendo dalle nostre esperienze. Per questo, dopo i fatti di Parigi, nel mio piccolo testo, in cui esecravo l’accaduto, ho invocato anche dei luoghi in cui ci si ritrovasse per parlare assieme delle esperienze che ci contraddistinguono.

Chi è l’uomo? Non è una domanda di parte, ma la domanda di un uomo fra gli uomini. Potremmo ritrovarci assieme per aiutarci a dare delle risposte. In questo senso vorrei riprendere l’invito fatto più volte dal cardinal Scola, arcivescovo di Milano, a creare luoghi di incontro e di racconto, luoghi che coniughino la memoria con l’ascolto.
L’uomo può fare a meno di Dio? Penso che l’uomo non possa raccontare se stesso escludendo il rapporto con gli altri e con Dio, eliminando di fatto il suo essere “altissimo” ma incompiuto, il suo essere fondamentalmente creatura. L’uomo non può fare a meno di riconoscere la sua creaturalità. Se non riconosce il proprio limite pone le premesse della propria distruzione. Se non siamo creatura significa che siamo Dio. Ma se siamo Dio, allora per ognuno di noi vale il detto del commediografo latino Plauto: homo homini lupus (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495).
Ho visto qualche sera fa il film “The giver” che presenta una società – e fa venire in mente Il padrone del mondo di Benson – in cui, per abolire la guerra, sono stati programmaticamente aboliti gli affetti. Si è abolito l’amore. Quando uno di dei protagonisti riscopre l’amore, scopre che è impossibile costruire il mondo senza il rischio della libertà e capisce che questo rischio coincide con il riconoscere la casa da cui veniamo.
Occorre coniugare la storia, i valori che ci costituiscono, con l’ascolto degli altri. La nostra storia non è un peso, ma una chance. Tutta la nostra storia, pur segnata da tanti limiti, incertezze e ombre, non è un peso. Non dobbiamo avere vergogna di noi stessi. Povera Europa che non ha più il coraggio della propria storia! La denatalità è il segno più grave, più acuto, più profondo di questa paura che invade l’Europa.

Un’altra bussola per orientarci è quella di non chiamare col nome di Dio i nostri desideri di difesa e di sopraffazione: questo è un grande contributo che Gesù ha dato alla storia del mondo e che i popoli – e i cristiani stessi – solo nel tempo, progressivamente, hanno iniziato a riconoscere e tradurre nella propria storia. Come papa Ratzinger più volte ha sottolineato, la stessa Rivoluzione francese, con i suoi princìpi di libertà, uguaglianza e fraternità, ha affermato dei valori cristiani. Dobbiamo essere grati alla storia dell’Europa per averci portato fin qui e per averci portato a non chiamare col nome di Dio i nostri desideri di sopraffazione degli altri.
Nello stesso tempo, con il nostro orizzontalismo cinico, offriamo armi e non risposte adeguate a chi ha sete di ascolto e non si accontenta del nostro modello di vita.
È terribile quello che è stato fatto nei confronti della redazione di Charlie Ebdo, ma non possiamo pensare che l’offerta del nostro orizzontalismo cinico basti a colmare la sete di assoluto, magari confusa, che abita i cuori di tanti uomini anche nell’Islam. Non è possibile pensare che chi non si accontenta della degenerazione del nostro modello di vita, lo debba per forza accettare o addirittura ne debba essere affascinato.
Abbiamo molto da offrire ai popoli che si insediano da noi, ma abbiamo anche molto da ricevere. Che cosa abbiamo da ricevere? Questo è il lavoro che ci attende. Date a Dio e date a Cesare (cfr. Mt 22,21): non possiamo separare la laicità dall’apertura a ciò che ci trascende e dal rispetto delle fedi su cui si fondano i popoli e le storie personali.

Abbiamo davanti un compito grande. Voi giornalisti potete contribuire a svolgerlo o a ritardarlo. Ciascuno di noi può farlo, ma voi siete in prima fila. Si può coniugare dignità del proprio lavoro e risposta alle contingenti strettoie del momento. Abbiate, se appena è possibile, un orizzonte grande; non lasciatevi morire nei particolari, ma aiutateci a disegnare il futuro che ci attende. Grazie.

+ Massimo Camisasca


Traccia per incontrare la città degli uomini

Il Vescovo scommette sull’intelligibilità della fede e imposta un cammino

Una cosa è certa, il Vescovo ama i giornalisti. Basta scorrere la bibliografia o elencare i suoi impegni reggiani o leggere le tante interviste rilasciate in questi due anni per capire che il giudizio più loquace sul mondo, su Reggio, sulla Chiesa e sulla Diocesi esce di fronte ai professionisti dell’informazione 1.
Per questo motivo il discorso tenuto per la festa di san Francesco di Sales è da considerare con un occhio attento. La mia impressione è che, in controluce, si intraveda la strada che nei prossimi anni il Vescovo vorrebbe la nostra Chiesa facesse sul dialogo tra società civile e società religiosa. In un gergo un po’ più asciutto potremmo leggervi un manifesto programmatico composto da: problema – metodo di fronteggiamento – contenuto.
Il problema enucleato è quello che assilla i cattolici nel passaggio di secolo appena avvenuto: siamo al cambio di epoca. Di fronte ad una società che ancora non si sa come chiamare (post-moderna è appunto un dopo qualcosa che non ha identità chiara) i cattolici oscillano tra atteggiamenti di diluizione (“abbandoniamoci alla moda del momento”) e di lamento (“torniamo al passato”). Pochi ancora si affacciano alla sfida del ripensare la propria storia per costruire una nuova sintesi. Il Vescovo scommette sulla intellegibilità della fede e sulla sua lungimiranza 2.

Il metodo di fronteggiamento del problema suona in prima battuta un po’ “strano”. Il Vescovo non ci dice: “abbiamo già perso, ritiriamoci sul monte”; neppure: “combattiamo il nemico lancia in resta”. Indica, piuttosto, la strada della costruzione di “luoghi di incontro e di racconto, luoghi che coniughino la memoria con l’ascolto”. Sembra dirci: confrontiamoci con il mondo in campo aperto, non abbiamo nulla da perdere e nulla da vincere, in fin dei conti Qualcuno ha già vinto per noi e per tutti.
Infine, il contenuto del confronto: l’antropologia e l’incontro tra culture 3.
Il Vescovo sa che la religione ha a che fare con le cose ultime e con la cultura, quindi non si interessa in prima istanza di che forma di governo o di che regime economico avviare, ma pone di nuovo le domande ultime: chi è l’uomo? che cosa abbiamo da dare e da ricevere all’altro?

Per aumentare la intelligibilità del discorso ai giornalisti metto in fila quattro punti.

1) Se si rileggono i discorsi pubblici del Vescovo nell’ottica di questo (presunto) disvelamento si possono cogliere alcune indicazioni più operative di lavoro. Analizzo, discrezionalmente, tre parole pubbliche importanti, che ci possono aiutare a fare un passo in avanti:
• Il partire da un’esperienza comune: nell’omelia di san Prospero del 2014 il Vescovo lancia l’idea che l’incontro con l’altro possa avvenire solamente da una base comune. In quel caso l’idea era: riparliamo di famiglia non a partire dai nostri diritti di adulti, ma dalla comune condizione dell’essere tutti figli 4.
• La testimonianza: nella nota sul gender di aprile 2014, il Vescovo ci ha detto che è la lenta e costante testimonianza personale, rettamente formata, a poter segnare il contenuto e l’appartenenza cattolica alla società contemporanea 5.
• Interessarsi a tutto: nella lectio magistralis in occasione della festa nazionale del Tricolore, monsignor Camisasca ha rivendicato il ruolo pubblico del cattolicesimo nella formazione dello Stato italiano, indicandoci un modello di intelligenza della realtà da copiare ed emulare. In sintesi, interessarsi di ogni aspetto della vita sociale a partire dalla propria fede, come i cattolici di fine Ottocento ed inizio Novecento.

2) La proposta del Vescovo non è fuori dal cammino che la Chiesa sta facendo nel mondo, oggi. I due punti di riferimento, mai citati nel testo ai giornalisti, sono Papa Francesco e Jurgen Habermas. Sicuramente, il Vescovo ha fatto suo il segno che Francesco sta dando alla Chiesa: essere una Chiesa in uscita, evangelizzatrice, che fa il primo passo incontro all’altro. Sempre del Papa, Camisasca riprende una postilla, poco conosciuta, del discorso tenuto al Consiglio d’Europa: lanciare un’agorà europea tra istanze religiose e civili 6. Meno diretto ma secondo me sincero è il legame con la proposta habermasiana di un confronto pubblico, intelligente tra fede e ragione 7.

3) Non si possono nascondere alcuni problemi dietro all’approccio utilizzato dal Vescovo. Innanzitutto, c’è qualche uomo di buona volontà a Reggio Emilia che è interessato a questa proposta? Ancora, un’impostazione dialogica lenta, arrendevole, a tratti passiva non si scontra con l’urgenza di alcuni segni forti, come ad esempio sul gender? Infine, i temi centrali non vanno forse coniugati con alcune interessanti caratteristiche dei reggiani che il Vescovo stesso aveva in passato accennato (ad esempio la cultura del lavoro e l’identità con l’occhio dell’altro)? 8

4) Infine, la proposta del Vescovo è una sfida grande alla Chiesa reggiana: per poter parlare con l’altro bisogna che la carità sia divenuta una narrazione e la narrazione una cultura. Forse su questo occorre un grande lavoro.

Matteo Orlandini


 Verità dell’incontro e testimonianza

Il cristiano è chiamato a tentare un dialogo profondo e onesto con tutti

“Homo sum: humani nihil a me alienum puto”, “Sono un uomo: non mi è estraneo nulla di ciò che è umano”. Mi è venuta in mente questa frase del commediografo latino Terenzio, leggendo, nel discorso del Vescovo, questo inciso: “Chi è l’uomo? Non è una domanda di parte, ma la domanda di un uomo tra gli uomini. Potremmo ritrovarci assieme per aiutarci a dare delle risposte”. Non si tratta di proporre un tema interessante per una bella serie di conferenze: mi sembra che tutto l’intervento di monsignor Camisasca suggerisca una sua preoccupazione, un interesse, una “tendenza” ben precisa. La preoccupazione è che alla globalizzazione, all’estrema velocità della comunicazione, alla dilatazione delle possibilità tecnologiche, alla presenza sempre più visibile di persone che vengono da lontano, da altre culture e religioni, la risposta non diventi il rinchiudersi in identità artificiali, che possono diventare violente: muri, che accentuano le differenze, fino a farle diventare esclusive, negando così di fatto quell’unità del genere umano, quell’uguaglianza, nel senso di uguale dignità, senza le quali non ci può essere la pace e una nazione non può darsi un ordinamento che la costituisca come comunità e non semplicemente come aggregato di interessi.

D’altra parte, alle identità artificiali, escludenti e potenzialmente violente, fa riscontro in alcuni una debolezza morale, per la quale ciascuno si rinchiude nella propria soggettività e nel suo gruppo; questo può portare al cinismo: “Con il nostro orizzontalismo cinico, offriamo armi e non risposte adeguate a chi ha sete di ascolto e non si accontenta del nostro modello di vita”.
Ancora una volta, il metodo è sostanza: l’uomo non esiste se non nella relazione con gli altri uomini e con quel fondamento che egli scopre in se stesso, il Tu desiderato e non posseduto, che noi cristiani chiamiamo Dio, ma che, con altri nomi, ogni uomo ricerca (Martin Buber).

è molto interessante la valutazione positiva che monsignor Camisasca fa della Rivoluzione francese: “Dobbiamo essere grati alla storia dell’Europa per averci portato a non chiamare col nome di Dio i nostri desideri di sopraffazione degli altri”. Nello stesso tempo, però, egli teme una laicità, intesa come rifiuto, amputazione di una dimensione dell’uomo, in definitiva sopraffattrice anch’essa: “Abbiamo molto da offrire ai popoli che si insediano da noi, ma abbiamo anche molto da ricevere… Non possiamo separare la laicità dall’apertura a ciò che ci trascende e dal rispetto delle fedi su cui si fondano i popoli e le storie personali”.
C’è dunque una prima verità, non semplicemente enunciata, ma agita, ed è la verità dell’incontro. Essa postula la dignità dell’altro e la necessità dell’ascolto.

Vorrei dare un contributo all’orientamento che il nostro Vescovo indica per la sua Chiesa. Pongo due domande.
La prima riguarda il piano dell’incontro. Giustamente, monsignor Camisasca collega tre livelli: le verità, cioè le convinzioni profonde di ciascuno e lo sforzo di trovare la concordia, partendo da posizioni differenti; il diritto; la politica. La debolezza di uno di questi livelli rende più confusi e problematici gli altri due.
Tuttavia, la partecipazione della Chiesa a ciascuno di questi livelli non può non essere diversa. Ci dobbiamo chiedere chi dovranno essere gli interlocutori. Questo ci porta a riflettere sul ruolo del cristiano “laico”, di colui cioè che impegna se stesso e non la Chiesa intera nella mediazione tra posizioni differenti. Mi sembra che, sia sul piano del diritto sia su quello della politica, si debba rispettare molto lo sforzo del cristiano, che cerca di coniugare la fedeltà ai suoi princìpi e la responsabilità verso tutti i cittadini.
La seconda domanda viene di conseguenza: è possibile raggiungere un accordo alto, non un compromesso al ribasso, su grandi princìpi, ma anche sui problemi e le sfide che si impongono al nostro tempo? Il nostro Paese ha vissuto un’esperienza straordinaria, in questo senso, quando venne scritta la Costituzione. Fu possibile, anche perché l’Italia usciva da una grande tragedia e tutti si sentivano responsabili verso le sofferenze e le speranze degli italiani. Prendere coscienza di quanto sia singolare e decisiva la nostra situazione odierna, benché in forme così diverse, dovrebbe essere il presupposto per superare rigidità e particolarismi.

In ogni caso, il cristiano sarà sempre di fronte a scelte difficili. Fin dove arrivare, nello sforzo di cercare un bene comune, e dove, invece, comincia il dovere della testimonianza? Quali valori vanno proposti a tutti, riconoscendoli presenti anche negli interlocutori, nella loro storia e nelle loro convinzioni? Quando, invece, si dovrà concludere che “siamo d’accordo che non siamo d’accordo”, portando le motivazioni per noi più decisive, quelle legate al Vangelo, ma che, proprio per questo, non possono essere imposte, ma solo testimoniate?
Va salutato, nel discorso del nostro Vescovo, lo sforzo di aprire un dialogo onesto e profondo con tutti. Questo, in un tempo nel quale spesso si urla, piuttosto che parlarsi, è merito non piccolo.

Giuseppe Dossetti


La fede, le relazioni e i processi in corso dove Dio opera anche grazie all’uomo

Leggendo la riflessione del nostro vescovo Massimo pronunciata ai giornalisti reggiani il 24 gennaio, volentieri offro un mio modesto contributo.
“Il lamento non fa storia”. Sebbene non manchino ragioni per cui lamentarsi accolgo in questa espressione del vescovo Massimo un forte richiamo a prendere sul serio il destino dell’uomo: il suo grande desiderio di giustizia.
Come possiamo farci responsabili di questa prospettiva?
Penso vi sia innanzitutto la necessità di essere noi stessi, in prima persona, testimoni credibili di un percorso di vita buona. Senza rimanere intrappolati nelle delusioni e difficoltà che generano inevitabilmente sofferenza ma rimanendo certi della stabilità di quella promessa che ci ha affascinati.
Mi piace quando Madeleine Delbrêl dice: “Un cristiano che ha ricevuto questo dono (la fede) e non vive una fede testimoniale è un non-senso: o si è missionari o si è dimissionari”.

Lungo questa via possiamo sperare di contribuire a generare una rinnovata cultura del dialogo e dell’incontro.
“Creare luoghi di incontro e di racconto, luoghi che coniughino la memoria con l’ascolto”.
Perché oggi riserviamo particolare attenzione alla dimensione umana dell’incontro? Abbiamo da ridestare questa sensibilità che permette di uscire dall’individualismo subdolo e imperante della nostra società. Nelle rete delle relazioni sarà possibile ascoltare adeguatamente ciò che altri hanno intuìto e scelto come parte integrante di un ideale di vita buona e cercare di riannodare così lo sfilacciato ma sempre più prezioso legame tra le diverse generazioni.

Credo, a questo riguardo, che sia per noi irrinunciabile alimentarsi continuamente dalla fede che ci è stata donata: perché essa apre realmente il cuore al prossimo còlto come un altro “io”, sulla base della comune esperienza della nostra umanità.
Sono confortato, ogni giorno, dalla vista di una riproduzione del quadro di Rembrandt raffigurante il ritorno del figliol prodigo: un arazzo in cui vedo intrecciate la fiducia nell’uomo, il filo mai spezzato tra un padre e il proprio figlio e la novità che germoglia dal perdono.

“Anche noi dobbiamo vivere questa lungimiranza. Non la superficialità che porta a minimizzare i problemi, ma la capacità di disegnare, all’interno dei problemi, le linee del nostro futuro”.
Concludo questo mio breve intervento sottolineando queste parole del Vescovo in cui mi ritrovo come atteggiamento con cui guardare alla sfide dell’oggi. Ciascuno di noi vive la tensione nel voler vedere il risultato delle proprie azioni consolidarsi nel tempo. A questo proposito sottolineo l’importanza di quanto ha affermato papa Francesco nella sua intervista a La Civiltà Cattolica: «Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».

Pietro Adani


Cattolici chiamati a rinnovare la cultura

Le crisi come cifra del futuro, tra libertà e responsabilità

Non so se i più perspicaci tra i nostri giornalisti, destinatari primi del messaggio del vescovo Massimo, si siano sentiti, alla fine, inorgogliti oppure intimoriti.
Non si è trattato, infatti, di un paterno orientamento di etica professionale, assai esposta, per sua natura, ad alcuni rischi, ma di una parva charta offerta a soggetti storici che intendano reclamare un ruolo critico positivo nella costruzione della città dell’uomo.
Perché intimoriti? Perché gli assi cartesiani della competenza e responsabilità acquistano una tremenda dilatazione di significato (ma questo vale oggi per tutte le professioni), se collocate sull’orizzonte dei problemi del “Sistema tecnico”, nel quale si muove l’uomo contemporaneo, inteso come moltiplicatore di crisi e di rivoluzioni. Il messaggio del presule contiene forti richiami alle iniziative promosse, in questi ultimi anni, dal Progetto Culturale Cei che, tra consonanze e divergenze, ha chiamato i cattolici ad un ossigenante “ritorno a casa”, ad una ritrovata convinzione, in virtù dei fondamentali della propria fede, della propria plurisecolare tradizione e delle proprie riserve di energie ideali e morali, di potere contribuire, da protagonisti, alla rifondazione di una Civitas.
Persino da parte di qualche intellettuale laico non si invoca “una Chiesa introversa” o semplicemente dialogante, ma la si incoraggia ad essere incalzante e rilevante. Proprio la criticità globale, nella quale annaspiamo, riceverebbe poco conforto dai cosiddetti cattolicesimi depoliticizzati e anti-istituzionali.

In tempi di pernicioso contagio da “pensiero debole”(che dalla filosofia si è esteso alla politica e all’etica) sembra che la celebre accusa di un laico come Prezzolini ai cristiani (strutturalmente “sfacciati”, perché le sparano grosse) si sia mutata in una qualche forma di riconoscenza, seppure bisbigliata a denti stretti. Senza minimizzare una dialettica interna al mondo e alla cultura cattolici, riconosciamo alcuni punti fermi e condivisi.
1. La Chiesa tutta si impegna a non fare mai mancare il proprio contributo alla gigantesca ed entusiasmante opera di educazione permanente degli individui e dei popoli, perché anche la politica torni ad essere intesa come “una forma di carità autentica” (Bagnasco).
2. “Le questioni decisive per una crescita complessiva del popolo italiano si pongono sul piano della cultura” (Ruini), senza dimenticare mai che la missione storica riconosciuta all’Italia si inscrive in un contesto geopolitico mondiale in accelerata trasformazione.
3. La cultura cattolica deve e può raccogliere questa esigenza di un “soprassalto etico-politico” (Fabris) necessario alle società industriali avanzate per disciplinare le pretese di economie e tecniche onnipotenti, ma riconosce anche le crescenti difficoltà a fare udire la propria voce a quasi tutti i livelli (Boffo, Schiavone, Montanari).
4. Il rammarico e la responsabilità sono tanto maggiori quanto più si guadagna in consapevolezza che i cattolici possono offrire non solo grandi riserve di energie e di capitale spirituale, ma anche rianimare la democrazia italiana, attingendo all’esperienza del cattolicesimo politico “nella sua tradizione popolare, personalistica, solidale” (Fusco, Fabris).
5. è vero che la Chiesa non ha soluzioni tecniche preconfezionate da offrire, ma può aiutare la società a ritrovare il punto di saldatura fra libertà e responsabilità, che vuol dire bene comune e apertura all’universale (Campodonico, Semplici); può supportare uno sforzo collettivo di metodo e di “ragione politica”, proprio in senso kantiano.
6. Per offrire un progetto di inculturazione della fede nel tempo presente, un tempo in cui l’Europa degli intellettuali prende le distanze dalle sue radici cristiane, dobbiamo tuttavia affrontare una questione tutta nostra, interna, per rispondere alla domanda: in quali condizioni si trova questa Chiesa che può e deve candidarsi a contribuire a rifondare la politica?

Nella risposta esprimo convinzioni molto personali. Tre sono le condizioni per potere dire: “presente” a questo appuntamento.
1. La prima condizione consiste nell’applicare a noi stessi una sistematica “purificazione della memoria”. Si vuol dire: rileggere la storia della Chiesa con una euristica ineccepibile e con una ermeneutica rigorosamente evangelica, liberandoci da ogni ricaduta di tipo apologetico e giustificazionista. E bisogna che questa onestà filtri dai recinti della storiografia e contagi il comune sentire cattolico.
2. La seconda condizione consiste in un impiego meno episodico e in una valorizzazione meno stentata del laicato sulle frontiere delle responsabilità ecclesiali. La lentezza di questo processo non è senza conseguenze sulla credibilità della cultura cattolica. Essa genera all’interno un deficit di comunione e si traduce, verso l’esterno, in una sorta di autolesionismo o almeno di depotenziamento del ruolo della Chiesa nei rapporti con la società civile, perché i laici quando parlano sono visti come soggetti ecclesiali a responsabilità limitata.
3. La terza condizione non è di minore portata. Se è vero che siamo depositari di una concezione forte dell’uomo e della storia, se è vero che la dottrina sociale della Chiesa si propone alla nostra audacia e creatività, dovremmo attingervi con maggiore coraggio sperimentale, che è molto più difficile della pura denuncia e che chiama in causa appunto i laici: dagli intellettuali agli imprenditori, dai politici ai banchieri, dagli amministratori ai gestori dei media. Questo intende dire il filosofo Antiseri che parla di “tradimento dei generali”, i quali, di fatto, con qualche distinguo, si adagiano sulle regole del gioco.

La cultura cattolica, dunque, è attesa a un appuntamento tremendo. La scommessa sarà ininterrotta e duplice. Ininterrotta, perché la natura del “Sistema tecnico” è tale da generare, in progressione, sconvolgenti cambiamenti con ricadute di carattere antropologico. Deve essere pertanto una cultura che ci orienti a decifrare le crisi, che saranno la cifra del futuro.
La scommessa è anche duplice, perché a una cultura come quella di matrice cristiana si chiede non solo di “stare dentro”, di aiutare l’uomo contemporaneo ad inventare qualche risposta decente alla domanda sui costi, sulla direzione, sui fini dello sviluppo, ma anche si chiede di indovinare e liberare tutte le “potenzialità obbedienziali” della civiltà delle macchine.

Sandro Spreafico


 Libertà e/o sicurezza?

 “Solo Dio è libero e sicuro; gli uomini solo se nasceranno da Dio”. (K. O.)

Quanta Libertà siamo disposti a rinunciare per la nostra sicurezza? Risposta laconica: “Quella necessaria!”. E quale è quella necessaria? É questo l’oggetto della nostra ricerca.

L’esempio minimo e più evidente è il semaforo. Per avere la sicurezza (evitare i tamponamenti ecc.), sacrifico una fetta della mia libertà di movimento. L’esempio massimo è lo zoo che vedremo in chiusura. Resta l’interrogativo su ciò che è la libertà.

Se la libertà è intesa come la più ampia possibilità di alternativa per le nostre scelte siamo a una definizione di tipo utilitaristico che riflette, per es. la situazione in cui si trova colui che vuole scegliere cibo al supermercato, senza domandarsi come arriva a lui la merce e a quale prezzo.

La questione della sicurezza – sistemi di controllo posti in atto per prevenire eventi tipo l’11 sett. a New York – limiterebbe il numero di queste alternative. Per es., le file sarebbero più lunghe, certi cibi costerebbero di più o sparirebbero dal mercato e ciò a causa di inevitabili controlli sulla libertà. Se, invece, della libertà diamo una definizione dal contenuto morale – per es. agire per essere consci del proprio dovere nei vari campi della nostra esistenzialità (sesso, danaro, potere) – allora la contrapposizione libertà-sicurezza viene finalizzata alla realizzazione di uno stato di cose che permetta nel lungo periodo la convivenza fra gruppi ideologicamente e religiosamente contrapposti.

In versione più filosofica: se la libertà consiste nel fare ciò che si vuole o si desidera fare, momento per momento, in ogni settore dell’esistenza, allora siamo al caso di Dioniso, il dio che sgambetta per la foresta senza pedagogia e senza regole, salvo a incontrarsi con altri Dionisi, come lui, e dover in quel punto elaborare un concetto di legge per non compromettere la sicurezza.

Non a caso la legge è definita dai massimi giuristi con sole due parole: “ordinatio rationis” ossia “un ordine (o comando) della ragione”. A dichiarare che la libertà trova nella “ratio” più che il suo limite il suo degno orientamento. I filosofi esistenzialisti dicono che la libertà non è un assoluto, ma un medium, e cioè relazionata alla verità, come che sia individuata. Chi la vuol erigere in assoluto incorre in grossi dispiaceri, tra i quali il primo è la sicurezza. Si pensi a come Hobbes è arrivato a ipotizzare il Leviathan (Lupo grosso che tiene a bada i piccoli Lupi).

Perché si possa lavorare a un progetto comune sulla terra, si può prendere l’esempio che riguarda la convivenza dei singoli e degli Stati. Per quanto concerne i singoli, è stato un segno di civiltà l’aver portato le dispute davanti al giudice e la cosa non è stata vista come una limitazione della libertà, bensì come un suo orientamento. Se ciò è vero per il singolo, non si vede perché non debba essere vero per gli Stati o per le religioni o per le ideologie. Per al disputa fra gli Stati siamo quasi all’anno zero nonostante le indicazioni kantiane relative al federalismo. Per le dispute tra le religioni e le ideologie siamo a qualche balbettamento sul pluralismo e la tolleranza.

Occorre, dunque, regolare con leggi i rapporti internazionali e il problema non può essere risolto che con la formazione di una federazione di Stati, nella quale ciascuno di essi sottostia a una legge che ne regoli la reciproca libertà. Del resto succederà ad essi (Stati) ciò che accade ai singoli. Il processo, o fine della natura sembra il seguente: l’uomo passa dalla barbarie alla società civile e gli Stati dalla indipendenza alla federazione. Questi temi vengono ripresi e chiariti da Kant nell’opera Per la pace perpetua (1795).

La costituzione legale della società è lo Stato. Suo primo compito è di assicurare la pace interna, che può essere data da un contratto sociale sorretto dalla forma repubblicana. Ma i popoli, in quanto Stati, stanno l’uno accanto all’altro come gli individui nello stato di natura e cioè in permanente minaccia di guerra. Al di sopra  della divisione degli Stati deve formarsi una federazione di popoli che invece di negare l’autonomia ne assicuri il diritto. Solo così la federazione viene a costituire una lega della pace, ben diversa dai trattati di pace; i quali pongono fine a una guerra, ma non allo stato di guerra.

Agli effetti pratici la via kantiana è uno sforzo della ragione per togliere, o spiegare, una contraddizione e cioè la conflittualità interna alla natura umana. Per completezza di analisi ricordiamo che Kant, in una famosa nota dell’opera “La religione nei limiti della ragione”, individua i tre ostacoli che rendono difficile l’unità del genere umano. E cioè: 1) La moltitudine delle lingue; 2) La moltitudine degli Stati; 3) La moltitudine delle religioni.

Oggi gli Stati Nazionali – piccoli o grandi che siano – sono dei contenitori di conflitti insanabili tra ideologie e religioni. E la lotta – violentissima – è per il potere. Anche là dove si attua la cosiddetta “democrazia” si tratta di una democrazia “imperfetta” perché siamo all’equilibrio instabile del 51% che è costretto a dettare l’etica al 49%; mediante un braccio di ferro che avvelena sempre più la convivenza sociale. Bisogna “inventare” un modo in cui la democrazia possa dirsi “compiuta”; in cui cioè si verifichi la libera determinazione dei “gruppi umani” al di là degli Stati Nazionali sovrani.

Con una immagina “fisica” si potrebbe dire: spacchiamo le ampolle degli Stati Nazionali – che contengono olio, aceto, mercurio, e acidi vari – e mettiamo in libertà il loro contenuto perché nasca una nuova aggregazione di elementi omogenei e volontariamente sceltisi per attuare liberamente e in sicurezza la loro visione del mondo. Il progetto può diventare comune solo se tutte le ideologie fanno il primo e più fondamentale passo; cioè accettano almeno l’unico principio per il quale la convivenza pacifica è migliore della sopraffazione del gruppo “altro”.

Visto il percorso storico della specie e considerata la psiche dell’uomo in sé preso, tale progetto potrà attuarsi – a nostro giudizio – solo dentro all’unico Stato Planetario; per il semplice motivo che dovendo essere governati, gli Stati Nazionali attuali, dai rapporti di forza fra ideologie e religioni, il conflitto diventa intrascendibile.

La nuova concezione della comunità sociale, al di là del pluralismo e della tolleranza è, per noi, la divisione delle etiche operata e assistita dallo Stato Planetario a sua volta emerso sulle ceneri “metastoriche” degli Stati Nazionali Sovrani. Solo in un simile assetto il fondamentalista potrà attuare la sua etica con quelli che la condividono senza imporla con la violenza a quelli che non la condividono. Nel mondo così come siamo non ci sono alternative. Precisiamo che la nostra  divisione delle etiche non ha nulla a che fare con la devolution dei piccoli leader di provincia che sta infettando soprattutto la vecchia Europa. Il male non sta nel volersi separare, ma nel volerlo fare in concorrenza con lo Stato Nazionale Sovrano. Ciò significa, in termini logici, aspirare a diventare ciò che si detesta e a moltiplicare la confusione etico-sociale.

In termini di iniziative, le aree di intervento potrebbero essere le seguenti:

1) Promuovere l’introduzione nelle scuole di tutto il mondo, di una Lingua internazionale (per es. l’Esperanto) accanto alla Lingua nazionale per cancellare definitivamente ogni volontà di colonialismo culturale, per liberare le “minoranze linguistiche” dal terrore storico dei vicini più forti, dando loro l’opportunità di far rifluire  – e quindi di salvare – nel tranquillo oceano dell’unità, il loro specifico patrimonio culturale, per esorcizzare la “maledizione” di Babele, e riprendere la pacifica occupazione del “Cielo”. Questo salto di qualità si può ottenere a costo zero e da subito con un solo atto di “buona volontà”.

2) Promuovere – da parte dell’ONU – un referendum “pro federalismo”. Se sono riusciti 50 Stati a federarsi (Stati Uniti) non si vede perché non sia possibile la federazione di 200 Stati. L’unità avverrebbe per libera determinazione e non per conquista (come nel subconscio dei grandi Stati attuali).

3) Promuovere subito – dopo il referendum – la ridivisione delle etiche e delle religioni perché la democrazia sia finalmente compiuta (e cioè attuata la libera determinazione dei gruppi).

4) Essere ben consci che lo Stato Planetario così ottenuto non è la gigantografia dell’attuale Stato Nazionale Sovrano; ma l’arbitro che controlla le singole libertà (sciolte dal contenitore Nazionale) affinché non si facciano del male (per es. rinuncino ad ogni forma di etnocentrismo); ma si impegnino a dimostrare ognuna le possibilità positive della propria visione del mondo.

Se c’è un gruppo umano che crede – sia pure per qualche imput religioso – nella poligamia e vuole coperto il capo e il corpo delle donne e queste scelgono liberamente tale condizione, nulla da obiettare. Il male comincia quando tale gruppo umano – galvanizzato da qualche imput sacro – si dà da fare per imporre tale etica con la violenza ad altri gruppi di persone vive o morte (talebanesimo). Questo è il primo orrore che sarà cancellato dalla storia con l’emergere dello Stato Planetario.

Se, infatti, la gazzella vuol essere sicura deve scegliere mentalmente lo zoo oppure mettere qualche altro diaframma tra sé e la libertà. E questo resta vero per il leone e per l’elefante che vogliono morire di vecchiaia.

 Aldo Bergamaschi

Associazione Aletheia



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