Il Censis: aumentano i divari, a rischio la coesione

Si rafforza la spinta dal centro a ridurre l’articolazione dei poteri locali. Ma i divari territoriali nel Paese sono profondi e aumentano nel tempo. Lo ha scritto ieri il CENSIS. In 18 regioni italiane si sono allargate le distanze tra gli abitanti residenti nelle diverse province rispetto al reddito pro-capite disponibile (solo il Molise fa eccezione, e in Valle d’Aosta regione e provincia coincidono). In Lombardia si passa dai 25.866 euro per abitante nella provincia di Milano ai 14.290 euro di Lodi, con una differenza tra il massimo e il minimo provinciale di 81 punti percentuali. Nel Lazio si va dai 20.965 euro di Roma ai 13.285 euro di Rieti (57,8% di differenza). La forbice tra massimo e minimo provinciale in Toscana (tra Firenze e Massa Carrara) è del 38,9%. In Emilia Romagna il reddito pro-capite disponibile nella provincia di Bologna è il 34% maggiore di quello di Ferrara. Più piccole, ma comunque significative, le distanze in Veneto: Padova supera del 15,9% Rovigo. E nelle Marche, dove Ancora è più ricca del 13% rispetto ad Ascoli Piceno. Negli ultimi dieci anni i divari si sono ampliati, con territori che hanno corso più veloci e altri che sono rimasti indietro. La differenza del reddito pro-capite disponibile tra Milano e Lodi era di 4.087 euro nel 2003 ed è diventata di 11.576 euro. La distanza tra Roma e la provincia laziale più povera era di 3.977 euro un decennio fa e ora è di 7.679 euro.

Si allarga la forbice su disoccupazione, densità d’impresa e export. Sono noti i divari tra le regioni italiane in termini di occupazione. Ma oggi si ampliano anche quelli infra-regionali. Si passa da un tasso di disoccupazione del 5,9% registrato nella provincia di Reggio Emilia al 14,2% di Ferrara, dal 13,6% di Avellino al 25,8% di Napoli, dal 15,5% di Taranto al 22,1% di Lecce. Anche la densità di imprese attive sul territorio è diventata più disomogenea. Si oscilla dalle 337.837 imprese presenti nella provincia di Roma alle 13.156 di Rieti, dalle 285.677 di Milano alle 14.493 di Sondrio, dalle 225.958 di Napoli alle 30.280 di Benevento, dalle 202.114 di Torino alle 12.184 della provincia di Verbania-Cusio-Ossola. Se nel 2005 le attività economiche romane erano 18 volte quelle del reatino, otto anni dopo (nel 2013) sono 25 volte di più. Ed è aumentata anche la variabilità relativa al valore delle esportazioni dei territori provinciali all’interno delle singole regioni, nell’ultimo decennio cresciuta in media di circa 1.600 euro pro-capite. Nel 2003 il differenziale medio del valore dell’export raggiungeva i 3.300 euro per abitante, nel 2013 supera i 4.900 euro. La regione dove la variabilità tra le province risulta più elevata è la Sicilia, con agli antipodi le province di Siracusa (18.610 euro di export per abitante) e di Enna (57 euro).

La tendenza allo svuotamento delle responsabilità locali. Queste constatazioni suggeriscono alcune riflessioni sull’attuale stagione di riforme degli enti territoriali, dei terminali dello Stato nei territori, della Pubblica Amministrazione. Uno slancio riformista traducibile in immagini a forte potere evocativo («sforbiciaitalia») trova terreno fertile nella crescente sfiducia verso i poteri pubblici a qualunque livello. Oggi solo il 10% degli italiani si fida del Parlamento (la percentuale era del 26% nel maggio 2010), contro il 23% registrato in Francia, il 29% del Regno Unito e il 46% della Germania. E la fiducia negli enti territoriali è scesa ai livelli più bassi di sempre: il 13% (era il 29% quattro anni fa), contro il 53% del Regno Unito, il 55% della Francia, il 68% della Germania. Nel calderone degli sprechi da eliminare può finire qualsiasi cosa: enti locali come le Province, autonomie funzionali come le Camere di commercio, le Autorità portuali o i Consorzi di bonifica, strutture periferiche dello Stato come le Prefetture, le Questure, la Motorizzazione civile o l’Aci: tutte articolazioni del potere pubblico che operano nell’ambito di una circoscrizione provinciale, ossia il perimetro operativo di riferimento per quasi tutte le funzioni di servizio del Paese. In questo scenario emergono però due problemi. Il primo riguarda la volontà di intervenire pur in assenza di un disegno unitario in materia di articolazione territoriale delle funzioni pubbliche. Non aiuta chiamare in causa le Regioni, enti deliberativi e con funzioni programmatorie, difficilmente reinterpretabili come soggetti amministrativi. E non aiuta neppure fare riferimento alle Unioni di Comuni che, per bacini di riferimento e competenze tecniche, difficilmente possono assumere funzioni tipicamente di «area vasta». Le previste Città metropolitane opereranno solo in determinate aree del Paese, e comunque con poteri non dissimili da quelli delle Province che sostituiranno. Il secondo problema riguarda il calo di considerazione per la dimensione intermedia, ossia per tutti quei soggetti che, operando alla scala locale, possono cogliere istanze territoriali specifiche e offrirne adeguata rappresentazione. Solo i soggetti intermedi possono lavorare sulle peculiarità e le differenze dei territori che, come si è visto, oggi tendono ad acuirsi. Alla stagione delle riforme «per sottrazione» si possono contrapporre le stesse critiche della controversa stagione dei tagli lineari. C’è il rischio che si proceda allo svuotamento delle responsabilità locali senza fare le opportune distinzioni in termini di virtuosità degli enti, analisi di efficienza nell’erogazione dei servizi, valutazione del gradimento delle comunità locali. Se si considerano gli stakeholder imprenditoriali di alcuni soggetti che operano alla scala locale emerge un giudizio positivo: le Camere di commercio sono giudicate efficienti dall’88% delle imprese con oltre 50 addetti, i Comuni dall’80%, le Province dal 72%, le Prefetture dal 71%.

Giuseppe Adriano Rossi