Gocce di umanità nel deserto degli emarginati – Viaggio nel Centro diurno che accoglie i piccoli disabili Saharawi

– da “La Libertà” n. 27, del 27 luglio 2013 –

Hayet cammina nel ven­to col suo velo colorato che l’avvolge e svolaz­za lungo le strade polverose di Dakhla. Sembra un angelo bello e afflitto. Porta sulle spal­le la piccola Salahdin, sei anni e un handicap grave. Un peso grazioso, ma gravoso. In tutti i sensi. Hayet non ce la fa più. Portarla sulle spalle ormai è quasi impossibile. La bambi­na sta crescendo ed è troppo pesante. E i soldi per il taxi non ci sono. E poi quella disabilità è qualcosa che non sa come af­frontare. Un peso anche quel­lo, ancora più prostrante.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]È[/dropcap] sola, il marito l’ha abban­donata: vive con la madre e la sorella in un minuscolo ap­partamento senza mobili: solo qualche stuoia sul pavimento e un seggiolone – adattato per Salahdin – che sta diventando troppo piccolo. Hayet, con il suo sorriso dolce e dimesso, nasconde una gran­de tenacia. Nonostante tutto, lei e la sua bambina lottano per vivere. Questa mamma tiene insieme ogni giorno i tasselli difficili di un mistero che cu­stodisce nel nome: Hayet, vita. Dakhla 051

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]S[/dropcap]ono molte le mamme come lei che in questa ventosa cittadina del Sa­hara Occidentale affrontano coraggiose e spesso silenziose le difficoltà di un’esistenza po­vera, aggravata dalla disabilità. Sino a tre anni fa la situazione era ancora più drammatica. Dal 2010 infatti, è stato aperto un Centro diurno per disabili a cui accedono circa 450 bam­bini. È un posto bello e curato, dipinto con colori caldi e alle­gri, fornito di molte attrezzatu­re per la riabilitazione.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]F[/dropcap]ondatore e anima di questo Centro è Bouh Semlali, che, nonostante la poliomielite che lo costringe su una carrozzina mostra una grande vitalità e di­namicità. Oltre a una simpatia contagiosa. È lui – che ha vissu­to sulla sua pelle l’esperienza della discriminazione oltre che delle limitazioni legate al suo handicap – che ha voluto for­temente aprire questo Centro. Che oggi funziona grazie all’a­iuto di molti amici e sostenito­ri, in diverse parti del mondo.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]C’[/dropcap]è anche un po’ di Reggio Emilia in questa struttura, che viene infatti sostenuta dal Cen­tro Missionario Diocesano. “Un piccolo contributo, per il momento – precisa il direttore don Gabriele Carlotti –, circa seimila euro, distribuiti su tre anni, per garantire soprattutto il trasporto delle mamme e dei bambini e un sostegno alla for­mazione. Ma vorremmo fare di più”. Don Eugenio Morlini, che segue da vicino il progetto, è tornato di recente, per la terza volta, a Dakhla. In quest’occasione era accompagnato da un’esperta fisioterapista, Patricia Liza­ma, che ha aiutato le operatrici del Centro a migliorare la loro formazione. “È questo uno degli aspetti più carenti – precisa don Eugenio – perché non esistono scuole adeguate per preparare fisio­terapisti e queste ragazze im­parano grazie all’intervento di volontari che saltuariamente arrivano dalla Spagna. Vor­remmo poter dare un maggior contributo in questo senso, ol­tre ad aiutare nel trasporto le mamme e i bambini, che spes­so vengono da lontano e sono molto poveri: non possono permettersi di pagare neppure il taxi che è il mezzo di traspor­to più comune ed economico”.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]B[/dropcap]ouh è molto orgoglioso – e ne ha ben ragione – di quello che è riuscito a fare qui grazie al supporto di molti amici e as­sociazioni e soprattutto grazie al sostegno della Chiesa locale. Ed è molto riconoscente. Non da oggi. “Quand’ero piccolo – racconta – ero paralizzato dalla polio­mielite. E, come me, c’erano altri ragazzi sia a Dakhla che a Layoune, senza alcuna pos­sibilità di essere curati. Allora, eravamo al tempo della colo­nizzazione spagnola e un’or­ganizzazione specializzata ci ha portati a Tenerife, dove abbiamo subìto diverse opera­zioni. In quegli anni, ho studia­to presso le scuole cattoliche e anche se mi garantivano un’e­ducazione musulmana, ero molto brillante in storia e mi piacevano moltissimo le vi­cende dei profeti”. Quando però è rientrato a Dakhla, Bouh ha dovu­to di nuovo confrontarsi con una realtà che per molti versi gli era diventata estranea e che percepiva come ostile. “Quando avevamo qualche visita in casa – ricorda – mi mandavano in un’altra stanza. Ero molto frustrato e detestavo la vita. Avevo perso la speran­za. Ora sto bene, ho trovato un lavoro e ho potuto farmi una famiglia, avere dei bambini. Ma adesso voglio aiutare altri come me a trovare lo stesso so­stegno che ho avuto io quando ne ho avuto bisogno”.

Dakhla 390[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]P[/dropcap]adre Mario León Dorado, uno dei due Oblati di Maria Immacolata (Omi) che garan­tiscono una minuscola presen­za cristiana in questa terra to­talmente musulmana, è molto legato a Bouh. Il quale, a sua volta, si sente un po’ respon­sabile della piccola chiesa di Dakhla. “Nel 2004 – raccon­ta – quando sono arrivate le ruspe marocchine per abbat­tere la chiesa insieme al forte spagnolo, io mi sono frappo­sto, insieme ad altri Saharawi. Anche se siamo musulmani, non potevamo permettere che abbattessero questo edificio. Fa parte della nostra storia e della nostra memoria”.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]O[/dropcap]ggi Bouh, oltre a essere il re­sponsabile del Centro disabili, è anche il custode della chiesa. “È il mio modo di rendere il servizio che i cristiani avevano garantito a me quand’ero un ragazzo, anche se non mi sono convertito alla loro religione. Al contempo, desidero mostra­re al mondo il nostro vero vol­to. Non siamo né intolleranti né terroristi come qualcuno ci considera oggi, tutt’altro. Pen­so che ognuno di noi debba trattare l’altro allo stesso modo in cui vorrebbe essere trattato. Se amiamo Dio e rispettiamo gli altri, certamente risolvere­mo tutti i nostri problemi”.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]N[/dropcap]el Centro disabili, questa convinzione viene declina­ta nell’assistenza quotidiana ai bambini disabili e alle loro mamme. Le operatrici mostra­no i gesti che li aiuteranno a muovere meglio le articolazio­ni e invitano le donne a fare al­trettanto, affinché possano poi riprodurli a casa. Si propon­gono ai più piccoli giochi che permettono loro di sviluppare alcune abilità e li si stimola a diventare più autonomi pos­sibile. I risultati non sono per nulla scontati, specialmente in un contesto di povertà e isolamento come quello di Dahla, dove molte famiglie tendono ancora oggi a na­scondere i propri figli disabili e a marginalizzarli.

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[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]I[/dropcap]nserirli nella società a pie­no titolo e con la dignità di persone uguali a tutte le altre è lo scopo di questo Cen­tro, il cui lavoro educativo e per cambiare la mentalità va ben oltre le pratiche fisiote­rapiche. Inoltre, rappresenta simbolicamente un punto di incontro e collaborazione in un contesto dove le pretese del Marocco e le rivendicazioni dei Saharawi su questa terra alimentano una situazione di crisi che si trascina da quasi quarant’anni. Bouh, che con il suo Centro ha deciso coraggiosamente di “mettersi in mezzo”, taglia cor­to: “In questa vita – dice – dob­biamo avere amore e fraternità per tutta l’umanità”. Un bel programma. Non solo per il Centro disabili.

Anna Pozzi

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