L’umanesimo cristiano del vescovo Caprioli. La santità del quotidiano come proposta-sintesi del suo magistero

– da “La Libertà” n. 40 del 17 novembre 2012 –

Lungo i percorsi dell’episcopato di Mons. Caprioli. Prosegue il nostro excursus dentro alle tracce lasciate dal Vescovo Adriano durante questi 14 anni alla guida della Chiesa reggiano-guastallese.

Da don Giuseppe Dossetti “jr.” un’ampia panoramica su diversi aspetti del ministero di Pastore di Mons. Caprioli, con particolare attenzione alla lezione del dialogo e dell’unità nella diversità.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]A[/dropcap]bbiamo apprezzato, nel Vescovo Adriano, la cordialità del tratto e la capacità di stabilire una relazione di simpatia con persone molto diverse, dai bambini fino a persone che abitualmente non hanno contatti conla Chiesa. Certedoti fanno parte del carattere di ognuno, certamente; è altrettanto certo che l’esperienza di parroco e prima ancora quella di responsabile del centro culturale della diocesi di Milano, con i mille contatti che questo incarico richiedeva, sono state l’occasione per acquisire una grande capacità di dialogo con gli uomini del nostro tempo. Non è un caso il ricordo devoto che il nostro Vescovo non ha mai mancato di professare per il suo papa Paolo VI, il Papa del dialogo. Tuttavia, mi permetto di dire che a monte di queste esperienze, che i suoi incarichi pastorali gli hanno permesso di fare, ha avuto un ruolo preminente la formazione che il nostro vescovo ha ricevuto: i suoi studi di storia, di letteratura patristica e di liturgia.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]Q[/dropcap]ualche volta, ho colto in lui il rimpianto di non poter utilizzare appieno la ricchezza dei suoi studi. Si sa che oggi vale ancora la frase un po’ amara di un altro milanese, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, il Papa Pio XI: “La storia, maestra di vita? è una povera maestra, che ha pochi alunni, che non imparano mai la lezione e dimenticano presto quel poco che hanno imparato”. Noi reggiani abbiamo certamente qualche responsabilità e gli dobbiamo qualche scusa. Il nostro carattere terragno non ama gli studi non finalizzati a qualcosa di immediatamente spendibile: “A cosa serve?”, è la nostra prima reazione di fronte a qualsiasi discorso o proposta. Cicerone, nella sua ricerca dell’otium, non sarebbe certamente venuto a Reggio Emilia. Anche per questo, è molto significativa la decisione del Vescovo Adriano di rimanere in diocesi: egli, certamente uomo di studio, ha trovato qui il modo di usare la sua cultura all’interno di uno stile pastorale, come ispiratrice anzitutto del suo ministero della parola. Non è un caso che egli si sia richiamato a sant’Agostino, l’esempio più bello di una sintesi tra spiritualità, cultura e ministero episcopale.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]M[/dropcap]a vorrei aggiungere un’osservazione che mi sta particolarmente a cuore. La formazione che un uomo riceve plasma di sé, inevitabilmente, il suo approccio alle persone e ai problemi. C’è molta differenza tra il teologo sistematico e chi ha studiato e insegnato patristica e liturgia. è inevitabile che un sistema, anche molto ben fondato, tenda a ridurre e talvolta a trascurare gli elementi che non rientrano perfettamente nella teoria generale. D’altra parte, non si può ridurre lo studio della tradizione al positivismo della prassi, bisogna cogliere i principi animatori della vita e del pensiero della Chiesa, mantenendo però quell’elasticità, quella polypoikilìa, della quale parlano l’Apostolo (Efesini 3,10) e anche san Pietro: “Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio” (1Pt 4,10). Se la grazia di Dio è “multiforme”, dobbiamo riconoscere con riconoscente sorpresa che Dio è sempre più grande di noi e che suscita nella sua Chiesa una varietà, che non distrugge, ma arricchisce l’unità.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]I[/dropcap]l periodo patristico è quello nel quale si formano diverse tradizioni, che si esprimono nella liturgia, anzitutto, poi nell’ordinamento canonico e nell’approccio alle problematiche del mondo. L’aver irrigidito alla sola tradizione latina l’ortodossia cattolica è stato un impoverimento, al quale il Concilio Vaticano II ha cercato di porre rimedio, integrando, nei suoi documenti, molti apporti della teologia patristica e orientale. Tuttavia, il rapporto con le fonti deve essere costante, non limitato alla ricerca di apporti a singoli problemi: si tratta di acquisire una mentalità più elastica, di prospettiva, capace di cogliere appunto la “multiformità” del mistero cristiano. Se noi consideriamo, in particolare, i testi liturgici, ci rendiamo conto immediatamente della varietà delle sfumature, secondo le quali l’unico mistero viene celebrato. Nello stesso tempo, la liturgia, rettamente intesa, frena gli arbitrii o le “creatività” avventurose.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]M[/dropcap]a soprattutto, la formazione storica e patristica induce a un atteggiamento di simpatia verso il pensiero umano, poiché, quasi a priori, si riconosce che unica è l’avventura della ricerca della verità e del senso della vita e che il messaggio di Gesù si inserisce in una storia che non può essere altro che unica. “Homo sum. Humani nil a me alienum puto”, “Sono un uomo; non considero estraneo a me nulla di ciò che è umano”, è la frase celebre di Terenzio, un commediografo pagano, che viene ripresa dai Padri della Chiesa: per esempio, sant’Agostino dice: “Omnis homo, in quantum homo est, diligendus est propter Deum”, “Ogni uomo, in quanto uomo, dev’essere amato per Dio” (de Doctrina Christiana 1.27.28). Fino a Paolo VI, appunto. Il 14 maggio 1969, quindi nel pieno del malessere per la riforma liturgica, il Papa affronta in un’udienza generale il tema del pluralismo: “Ciò che ora preme qui ricordare è la legittimità e il limite del nostro pluralismo religioso. Una parola soltanto, più ad esempio che a spiegazione. Si è fatto da alcuni obiezione al pluralismo introdotto dalla Chiesa dopo il Concilio nella Liturgia, che con Sant’Agostino, in un suo commento al Salmo 44, potremmo paragonare alla veste sontuosa della regina biblica: «La veste – si chiede Sant’Agostino – di questa regina (la Chiesa) qual è? È preziosa e varia: i misteri della dottrina in tutte le diverse lingue. V’è una lingua africana, un’altra siriaca, un’altra greca, un’altra ebraica, ed altre ancora: fanno queste lingue il tessuto variopinto della veste di questa regina. Ma siccome tutta la varietà della veste si accorda in unità, così anche tutte le lingue in una sola fede. Vi sia pure varietà nella veste, ma non scissura» (Enarr. in Ps. 44, 24)”.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]D[/dropcap]a questa formazione deriva al nostro vescovo un atteggiamento pregiudiziale di simpatia verso ogni uomo, come luogo nel quale certamente la grazia di Dio ha posto i suoi semi. Ma, nello stesso tempo, troviamo qui il fondamento di un altro aspetto della sua predicazione, l’insistenza sulla santità del quotidiano e la sua ammirata ricerca dell’opera dello Spirito nella sua Chiesa di Reggio. Lo abbiamo sentito tante volte ricordare figure del nostro passato, delle quali ha parlato con singolare penetrazione.

[dropcap font=”arial” fontsize=”36″]V[/dropcap]orrei concludere citando alcune frasi di un suo discorso, tenuto nella Cripta della Cattedrale, a lui così cara, in occasione della festa dei santi Crisanto e Daria, il 24 ottobre 1999: “Accanto ai Santi più noti e caratterizzati da una personalità straordinaria, si sente il bisogno di sentire accanto a noi figure meno note ma ugualmente dedite al vangelo, che amano la propria terra, la propria Chiesa, la propria famiglia, che conoscono i propri doveri, che risoluti ma tranquilli li compiono là dove si trovano, soprattutto che hanno volti abitati da Dio. Sono i volti di coloro che irradiano la gioia senza saperlo. Volti di coloro che, nella tristezza, vivono di speranza. Volti di coloro che, subita un’offesa, sanno perdonare e provare pietà per chi li ha offesi. Volti di coloro che preferiscono passare per ingenui piuttosto che tentare le vie spregiudicate del successo. Perché non lasciarci tentare anche noi da questa santità nel quotidiano?”.

don Giuseppe Dossetti



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